A darci il buongiorno alle 06:00 è il suono della sveglia, nettamente più piacevole quando si ha davanti una bella giornata per praticare del sano e giusto enduro.
Oggi proviamo ad arrivare a Stung Treng.
C’è una strada che arriva fino al confine con il Laos, e poi ripiega giù disegnando un mezzo arco fino a sbucare a Thaalaabarivat. Arrivati lì prenderemo un qualsiasi mezzo galleggiante su cui caricare le moto, attraversare il Mekong e nel tardo pomeriggio essere a Stung Treng.
Questo è il percorso più battuto e ci viene confermato dai locali e dalle due mappe che abbiamo portato con noi.
Ma basta poco per stravolgere l’intero programma di quella che doveva essere una tranquilla giornata di un dicembre cambogiano.
Basta poco.
Basta poco
Basta poco. Basta un dito indice che sulla cartina invece di continuare a seguire la strada più battuta, si sofferma curioso su un sentiero appena accennato che si separa dalla strada principale e si infila serpeggiando in piena giungla attraversando tutta la regione del Preah Vihear e con un taglio netto sbucare direttamene ad un passo da Stung Treng.
Basta poco.
Senza nemmeno che ci sfiorasse l’idea di chiedere all’altro se volevamo provare a percorrere quel sentiero, in un attimo ci lasciamo alle spalle lo stradone rosso per imboccare quello che pensavamo fosse il sentiero visto prima sulla mappa…
(però un po’ ci somigliava!)
Guidiamo per qualche ora su questa strada di dura terra rossa che si infila dritta nelle sfumature verdi di alberi sempre più fitti.
La foresta ci inghiotte. Le fronde degli alberi coprono il cielo rubandogli la luce che fa fatica a penetrare e in alcuni tratti sembra di essere in galleria.
Le pareti sono rami e foglie che non ti perdonano nessuno scarto, e se ti avvicini troppo ti si aggrappano al manubrio, alle mani e ti strappano dalla moto.
E più di una volta ho visto la mia moto proseguire da sola per qualche metro mentre io cadevo culo a terra dopo un vile sgambetto da parte di chissà quale pianta.
Di tanto in tanto gli alberi si aprono all’improvviso, sputandoci fuori in praterie spoglie che sembra abbiano passato il rasoio.
Poi con la stessa velocità la foresta si richiude.
Ore di piacevole enduro rallystico senza sosta, senza fermarsi, nemmeno per bere.
Percorriamo un bel po’ di km nella fiabesca incoscienza che annebbia il cervello di qualsiasi endurista che ci mette la passione alla guida, che non ti fa sentire la stanchezza, che non ti fa sentire la sete, che non ti fa sentire nemmeno il clacson di Fede che s’era fermato mezz’ora fa per pisciare.
“Ma quanto mancherà?”
“Boh… dai, facciamo un altro po’ di strada, abbiamo ancora due ore di luce.”
E qui mi sarebbe piaciuto scrivere che i nostri due eroi nel tardo pomeriggio sono riusciti ad arrivare a destinazione, prendendo alloggio in un confortevole albergo.
Purtroppo non tutte le favole finiscono bene e, purtroppo, alcune non finiscono proprio.
“Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ‘l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.
Inferno, III canto.
Dante però all’Inferno c’è andato a piedi e guidato da Virgilio,
mica in moto e accompagnato da Federico!
E’ dalle 06:00 di questa mattina che siamo in moto, ci siamo fermati giusto per fare benza prima di lasciare la stradone rosso.
Non abbiamo fatto colazione, non abbiamo pranzato e cosa più grave, non abbiamo bevuto una sola goccia d’acqua.
Quando ci fermiamo per vedere se c’è avanzato un biscottino, uno snack, una qualsiasi cosa da stuzzicare, ci accorgiamo non solo che non abbiamo nulla da mangiare, ma che abbiamo perso due bottigliette d’acqua e che l’unica rimasta è piena per metà.
Bene…
Aggiungendoci che le pile del gps sono scariche e che il telefonino non prende potremmo quasi dire: “ma che sfiga!”
E invece no, resistiamo, perché il peggio, anzi il peggissimo deve ancora arrivare.
Ci si presenta davanti un corso d’acqua, il ponte principale è crollato, per fortuna più a valle sulla destra con gli avanzi di una barca e con fasci di canne è stato costruito un altro ponte.
Penso che sia stato questo il punto di non ritorno. Il punto in cui tutto è cominciato ad andare per il verso storto.
Da questo punto in poi c’è successo di tutto. Anche l’irreale.
Il sentiero che stavamo seguendo inizia a restringersi e il fondo a cambiare, ovviamente in peggio.
Il fondo duro di terra rossa è sostituito da un poco simpatico ciottolatone.
Non solo, dopo qualche chilometro ci accorgiamo che finisce nel nulla.
Rigira la moto e ritorna indietro, altri chilometri di sassi e imprecazioni e avanbracci e cosce che pulsano di dolore, ma nemmeno dall’altro lato troviamo una via di uscita.
Ri-rigira la moto e ri-ritorna indietro.
E stanck.. ma porcapupazza, un ramo mi ha rotto la leva frizione. Aristanck e un altro ramo mi strappa il supporto della videocamera!
E sbang! Fede cade e rompe la sua leva frizione. Stong piego la leva del cambio. Sbeng mi ritrovo senza la suola dello stivale.
Ci fermiamo un attimo. E con un po’ di nastro americano Federico cerca di sistemare almeno le leve. E’ qui che ci accorgiamo che uno stelo della mia moto perde olio in abbondanza. Inutile sottolineare che frecce e specchietti sono partiti già da un po’.
Rimontiamo in sella e imbocchiamo un altro sentiero, non sappiamo dove sbuca, ma sembra puntare ad est, e per noi ora, è l’unica cosa che conta.
La stanchezza inizia a farsi sentire, e iniziano le prime cadute stupide, le peggiori.
Lo stramaledetto sentiero si dirama in altri sentieri più piccoli che ripiegano e si ricongiungono e che poi ti ritrovi nello stesso punto, e attorno come punti di riferimento mille alberi che manco fossi Piero Angela riuscirei a distinguere.
Senza leve frizione siamo costretti ad accendere le moto al volo, ingranando la prima e partendo a cannone sperando di avere davanti qualche metro libero per riprendere il controllo della moto stessa.
Quando questo non era possibile, dovevamo riaccenderle a spinta. Ed è peggio della tortura quando si è sulla sabbia.
Guidiamo alla cieca, in un groviglio di tracce e sentieri che si intersecano.
Superiamo qualche guado, che poi dobbiamo rifare al contrario quando ci accorgiamo che abbiamo di nuovo sbagliato direzione, ormai la strada non esiste più.
Continuiamo o almeno ci proviamo a percorrere qualche centinaio di metri, per poi fermarci e ricontrollare dove diavolo siamo.
Sembra un labirinto, un maledetto labirinto senza pareti e con questo maledetto fondo di sabbia è tremendo.
Non stiamo in piedi. Guidiamo con fatica, ogni errore lo paghiamo con una caduta, e ogni caduta sembra appesantire sempre di più la moto che non ce la facciamo più a rialzare da soli.
La foresta cambogiana ci tiene isolati e nel buio dei suoi cunicoli non abbiamo minimamente idea di che ore siano.
Uno squarcio tra la fitta vegetazione ed un cielo stellato ci gela il sangue.
E’ notte.
Ci fermiamo, un attimo, uno appena per recuperare le forse e fare il punto sulla situazione… abbastanza preoccupante adesso.
Non appena spegniamo i motori, nel buio silenzioso e senza luce della notte, millemila versi diversi di non so quali bestie riempiono ogni nota della scala musicale.
“Fiu fiu fiu fiu”, “uhao uhao uhao”, “iea iea iea”, “au au au au au au”
“Ma che razza di animali ci sono qui!”
Alcuni addirittura sembrano prenderci per il culo!
Al coro generale si uniscono altri due versi di altre due bestie, io e Fede che cerchiamo di capire come venire fuori da questa situazione.
Prendiamo il punto GPS per localizzarci sulla mappa, illumino con la torcia la cartina Cambodia Institute France Map e 10cm di raggio disegnano un cerchio di luce dove noi siamo il centro mentre attorno niente, un nulla che finisce dove arriva la luce della torcia, oltre quella circonferenza, più in là, il nero della notte.
Abbiamo percorso appena 80km in linea d’aria, 80km che ci separano dallo stradone rosso lasciato stamane, quando abbiamo deciso di tagliare per questo maledetto sentiero.
Ok, avanti non si puo’, non possiamo procedere così, già di giorno è difficilissimo riconoscere bivi e sentieri e recuperare la strada quando si sbaglia.
Ora in piena notte, rischiamo troppo, anche perché, dovesse esserci da affrontare un guado, non riusciremmo a vedere l’altra sponda… e il solo pensiero mi fa tramare le chiappe!
Giriamo le moto, e cerchiamo di risalire la nostra traccia registrata con il gps di Federico.
Avevo già seguito delle tracce registrate, facendo enduro in Italia, oppure in uno dei viaggetti fatti nel deserto tunisino e libico.
Mai l’avevo fatto, e mai avrei pensato di farlo di notte e in piena giungla cambogiana.
Un labirinto micidiale, avanziamo bradipamente ad uno all’ora, è come procedere a tentoni in una casa costruita da Marilyn Manson ubriaco e arredata da Hannibal Lecter sotto acido.
Passiamo vicino ad una palafitta, prendiamo il punto gps, portebbe essere un rifugio ideale dove passare la notte.
Io mi fermerei anche subito, mentre Federico vuole proseguire. Sono talmente stanco che non riesco nemmeno a dirgli di no.
Un attimo per bere, bagnarsi giusto le labbra con quella poca acqua che c’è rimasta, che ci deve bastare per tutta questa notte.
Io sono alla frutta e alla fine ringrazio il cielo non appena cado, almeno ho qualche attimo di riposo.
Un pugile allo stremo, che si appoggia all’avversario per respirare e riprendere fiato.
Poi arriva l’arbitro, che ci separa, e si ricomincia, monto in sella, spingo la moto per accenderla e via… ma quand’è che finisce il round, quand’è che finisce l’incontro?
Non vedo l’ora di cadere di nuovo. E subito vengo accontentato.
Salta il fusibile delle luci, cala un sipario nero sul mio palcoscenico su cui mi esibisco con un doppio carpiato con avvitamento laterale che nessuno può vedere.
Per un secondo anche quei millemila versi diversi smettono di fare caciara.
Altra caduta, l’ennesima, l’ultima stavolta.
Sono a pezzi, non ce la faccio più. Ho crampi ovunque, mi tremano i muscoli delle braccia, le dita mi vibrano e non riesco nemmeno a tenere in mano il manubrio.
Col culo a terra, la mano sul mento del casco guardo la moto, sfinita anche lei.
In un attimo sopraggiunge Fede, e non appena spegne la moto, ripiombiamo in un buio totale che inghiotte ogni fotone, ogni colore si spegne in un nero che sembra quasi pesare.
Stavolta tra tutti quei versi, ce n’è uno che attira la nostra attenzione.
Un verso ritmico, profondo, con una tonalità secca che sembra avvicinarsi, avanzare lentamente verso di noi.
Nel buoi dal casco incrocio gli occhi di Fede, sgranati come i miei.
“E adesso, cos’è ‘sto rumore?”
Un fruscio di foglie calpestate e dei cespugli a pochi metri da noi si muovono.
Con il cuore a tremila e un nodo in gola che non riesco più a deglutire, a prendere aria, scalcio e aiutandomi con le mani provo a rialzarmi.
Gli occhi abituati alle tenebre fissi al nero che mi sta davanti.
Una paura sinistra che mi paralizza non appena vedo la sua ombra.
Che racconto fantastico… per più di un istante ho sentito la fatica di arrancare alla cieca nel folto della giungla cambogiana ed il sollievo nel ricevere un aiuto inatteso… cazzo mi é pure venuta la voglia di una zuppa di teste di pesce!
Ciao Luigi
Grazie tante per i complimenti
PS
ahhh … la zuppa di pesce … cosa mi hai ricordato! Mammamia che avventura!
ciao
Un ammasso sconquassato…ahahahaahaha….cervello di cristiano sbudellato….ahahhahahaa ragazzi io sto morendo!