Avevo appena venduto il Giessino convinto che, tanto la Platessa sarebbe stata sufficiente ai miei desideri motociclistici. A parte un bel lavaggio con shampoo e idropulitrice, a cui sono assolutamente contrario, non le mancava proprio nulla. L’ho pure usata per fare su e giù dalla Capitale, ovviamente per fare delle visite mendiche, mica per gli aperitivi. Un paio di settimane fa l’ho pure usata per andare a lavorare! La Platessa, però, non è un mezzo da lavoro e si vede che si deve essere offesa. Del resto, quando era in trasferta a Milano, mio cugino la usava per andarci a lavoro e lei, per ripicca, si buttava per terra e faceva i capricci. Lui l’ha pure tenuta in punizione in garage per un paio d’anni, ma niente. Si è ripresa solo quando è tornata a casa da me.

La Platessa
Eravamo all’Esquilino per un corso di formazione. Abbiamo preso la strada di casa e, dopo poche centinaia di metri, alla ripartenza da un semaforo, si è rotto il cambio. Proprio davanti la stazione Termini. La Platessa, trattandosi di lavoro e non di piacere, si è rimessa a fare i capricci. Però, essendo affezionata, mi ha lasciato a piedi alla stazione dandomi comunque la possibilità di tornare a casa. Ma io non sono come lei e non me la sono sentita di abbandonarla lì da sola, in balia dei vigili urbani. Quindi l’ho riportata a casa con l’aiuto del Daily di un amico; quello a cui ho venduto il Giessino.
Questo tradimento a metà mi ha fatto un po’ male al cuore visto che le ho sempre voluto bene e, quando è stata veramente in pericolo e abbandonata, del resto l’ho salvata dall’eutanasia, ho fatto tanto per lei.
Il danno non è riparabile in garage e quindi, per questa volta, mi sono dovuto affidare ad un professionista del settore.
Aspettando che il ricovero si concluda mi sono messo a cercare un nuovo giocattolo. In principio l’obiettivo era un “back to the roots”. Una nuova vecchia Africa Twin. E l’avevo pure trovata. Allestimento Overland con forcelle Marzocchi, mono Holins e tutti gli accessori del caso. Una volta avrei potuto dire froscerie ma adeso non è politicamente corretto. L’ho pure provata ma, niente, non ho più la forza per tenere in piedi una moto che pesa più di due quintali dove tocco sulle punte.
Il buon Leonardo, il venditore, aveva però un garage pieno di giocattoli tedeschi tra cui ne spiccava uno veneto. Una bellissima Aprilia Tuareg Wind 350 del 1988. Bellissimo giocattolo con motore Rotax, carene “Dakar” e, soprattutto senza nessuna elettronica. E’ stato amore a prima vista. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto del Gemello Destro che, come al solito, si è messo a totale disposizione per accompagnarmi alla Laurentina per fare il passaggio di proprietà. Ed è qui che comincia la storia vera.
Appuntamento alle 10:00 a casa mia per andare a Roma in moto, la sua. Per non essere accusato di essere il solito ritardatario, alle 9:30 sono già pronto e mi metto pronto in veranda.
Mi aspettavo si presentasse con l’Africa “vera” ma invece si presenta con quella moderna e vestito di tutto punto. Stivale, pantalone antipioggia, giacca, guanti, casco e sotto casco. Io, siccome non sono il tipo che si fa parlare dietro, mi faccio trovare vestito meglio di lui. Stivale tecnico, pantalone con ginocchiere di protezione, tartaruga paraschiena, giacca con protezioni, guanti, casco e sotto casco. Manco quando siamo andati a Solla era imbottito così, ma adesso c’ho un’età, a quel tempo, mezza. O forse al contrario…
Fermo davanti al cancello, il Gemello, muovendo il casco verso l’alto, mi fa cenno con la testa di salire. Lo guardo dritto nella visiera per fargli capre che ho capito e mi avvicino per salire mentre lui puntella i piedi sull’asfalto sdrucciolevole. Mi avvicino con passo convinto e determinato come un pastore tedesco che si avvicina ad un palo della luce, alzo la gamba destra per infilarla tra il bauletto e la schiena del gemello e conquistare il sedile. Ma niente, sarà l’imbottitura coibentante, sarà l’artrosi, sarà la vecchiaia, la gamba non si alza abbastanza per centrare il passaggio. Opto quindi, per il piano B. Apro la pedana del passeggero e punto il piede sinistro. Con l’aggiunta del mio peso, il piede del Gemello comincia a cedere sullo sdrucciolo e, a mala pena, riesce a tenere in piedi la moto mentre io desisto dal mio gesto. Riusciamo a trovare una nuova posizione più stabile dove riprovare. Ma anche questa volta niente. Non riesco a tirarmi su con una sola gamba. Motivo? Vedi sopra.
Moto sul cavalletto laterale. Gemello desto che fa da muro di sostegno. Io mi appoggio con una mano sul Carlo, alzo la gamba che acchiappo al volo col la mano libera e la spingo oltre i sedile. Sono a cavallo. Carlo, fatto un lungo respiro che appanna la visiera del casco, prende la rincorsa per salire ma, anche lui si accorge che non siamo delle ballerine di danza classica e, più di tanto le gambe non si alzano. Dopo un sollevamento dove sembrava più da Kung-fu Panda che da Roberto Bolle, scavalla a anche lui e partiamo.
I primi chilometri verso la Laurentina mi portano alle mente tanti ricordi. Il Gemello è ingegnere ma a guidare la moto sa il suo perché. Poi cominci a sentire delle strilla disumane. Non capisco se stia cercando di dirmi qualcosa, se stia soffrendo perché si è strappato il muscolo adduttore mentre cercava di salire in moto o perché abbiamo messo sotto un gatto. Escludo che stia parlando con me perché dice parole senza senso, escludo lo strappo muscolare dal momento che è passato troppo tempo da quando siamo partiti e, altrettanto, il gatto visto che siamo sul raccordo. Sta battendo la mano sul gruppo comandi di sinistra strillando contro il pulsante del clacson e delle frecce. Ho assistito dal vivo a quello che tutti credevamo fosse una leggenda metropolitana. Tutto ciò che ci ha raccontato è vero.
Con la dovuta prudenza e con la comprovata esperienza ci facciamo largo tra le macchine in fila sul GRA e riusciamo ad arrivare all’appuntamento a con soli 15 minuti di ritardo.
Tutti vestiti da motociclisti, a cavallo di una moto bellissima malgrado il comando frecce, siamo bellissimi. Ferma la moto e spento in motore, cerco di mettermi in piedi sulle pedana per scavalcare, con gesto atletico in veronica, il bauletto d’alluminio e scendere dalla moto. Ma niente, non riesco. Allora scelgo l’opzione “foca”. Metto il piede a terra, mi reggo sul braccio di Carlo e provo a scivolare via dalla sella. Ci riesco ma, avendo l’agilità di un pinguino, perdo l’equilibrio, la presa sul Gemello, faccio due giravolte e mi salvo dal cadere rovinosamente a terra solo perché riesco ad abbarbicarmi sul palo del divieto di sosta che sta a margine del marciapiedi. Sono salvo ma non del tutto. Ad assistere a questa pietosa scena c’è un’anziana signora che, camminando appoggiata al deambulatore mi dice “Forse è meglio che la prossima volta venite in macchina”.
Ma siamo arrivati, adesso non resta altro che firmare le carte. Ed eccola a casa.
testo e foto di Maculato