Undicimila km e più di un mese in viaggio
eppure mi sembra di esser stato fermo, immobile.
Seduto comodamente in sella, a guardarmi paesaggi che squarciano orizzonti lontanissimi.
Affacciato al davanzale del cupolino un susseguirsi di vallate, montagne, lagune, deserti, laghi.
A sbattere sulle finestre della visiera il vento freddo dell’ Azerbaijan iraniano
e quello caldo del deserto Dasht-e Lut.
Fermo senza batter ciglio
immobile nello spazio e nel tempo,
mentre tutt’attorno si scatenava una delle tempeste emozionali più devastanti mai viste prima.
Gli iraniani,
di un’ospitalità letteralmente disarmante,
mi hanno rapito
tenendomi in ostaggio per un mese
torturandomi senza mai smettere
con elettroshock di gioia, sassaiole di sorrisi, scariche di felicità
torturandomi in questo modo
con una ferocia disumana,
tanto da sconquassarmi l’animo.
Essere ospitato a casa da persone mai viste prima.
Mangiare e dormire da loro, dividersi la cena,
parlare del più e del meno,
essere presentati a tutta la famiglia,
giocare con i bambini,
imparare a bere il chai gustandosi il tempo,
ritrovare la semplicità.
E non saper minimamente come ringraziare, ricambiare.
Mettercela tutta nel salutarsi il mattino successivo.
Mettercela tutta prima di ripartire e andare via.
Sperando che le mie strette di mano, gli abbracci, e le pacche sulle spalle,
possano trasmettergli quel “GRAZIE infinito”
che non riuscivo a dire a parole,
che non riuscivo a trattenere dentro,
come le lacrime che nascondevo nel casco
dopo essere stato chiamato “amico, fratello”.