Sesta puntata: da Pristina in Kosovo a Theth in Albania.
Sveglia con mal di testa, ieri ci siamo ubriacati troppo. Il Saraceno cerca di ricordare in maniera confusa ed appannata la scena dell’attentato alla sede della TV pubblica kosovara, nemmeno noi ricordiamo granchè … ma della giornalista … lei si che ce la ricordiamo a memoria.
Ci mettiamo in viaggio sotto nuvole grigie e basse, l’aria odora di imminente acquazzone e il rischio di beccarci una bella pioggia fredda mattutina è costante.
Sull’autostrada che ci accompagna fino al confine albanese un tizio attraversa spensieratamente tutte le corsie della carreggiata con al guinzaglio una vacca. Poi per buoni 30 minuti ci portiamo incollati al culo un camion carico di breccia che ci segue a 30cm dalla targa; acceleriamo e lui non molla un centimetro, sembra il film Duel di Spielberg.
Frontiera Kosovo – Albania
Il controllo documenti dura davvero un attimo e ne approfittiamo per fare pausa e scaldarci un po’ nel primo bar non appena superata la frontiere e messo piede in territorio albanese. E si respira subito Italia: ordini un caffè e ti portano un Espresso, profumato e buono. Ed è bello sentirsi a casa. Tanto che mi permetto una battuta in romano ad un avventore che si gira e mi risponde in rima “ma chi te conosce?!” Resto di stucco … poi grossa risata, pacca sulla spalla e mi offre il caffè.
Ancora autostrada, ancora A1. Strada finanziata da una società turca che con metodi poco trasparenti s’è aggiudicata appalti milionari. L’Albania purtroppo assomiglia sempre più all’Italia con pregi e difetti. Ospitale e affettuosa, ma allo stesso tempo corrotta e sempre più schiava di una politica sporca. Questa autostrada è il più grande progetto stradale albanese. La seguiamo fino a Kukes dove usciamo per andare a prendere una pista fuoristrada che costeggia il bacino creato dal fiume Drin. Purtroppo le nostre mappe non sono aggiornate e la pista è ormai tutta asfaltata.
La strada è comunque bellissima con le sue curve che affacciano sulle acque limpide di questo bacino artificiale nato da alcuni sbarramenti costruiti a monte sul fiume Drin. Le pareti di roccia coperte di folta vegetazione in alcuni punti cadono a picco in acqua.
L’ultimo traghetto
Occhi sempre aperti perché la strada è poco manutenuta e spesso troviamo dei grossi massi caduti dalle pareti delle montage proprio in mezzo alla carreggiata. Dopo una di queste curve le montagne e il corso d’acqua si aprono e riusciamo a vedere l’imbarcadero: c’è un traghetto che sbuffa nuvole di gasolio mentre manovra vicino il molo. “Noooooo! Non possiamo perderlo!”
Da Fierza a Koman c’è un collegamento quotidiano con un traghetto che risale lentamente le tranquille acque del fiume. Le sue sponde si restringono molto per attraversare le Alpi Albanesi e ci vuole qualche ora per coprire la tratta.
Ci scapicolliamo per raggiungere il molo, non possiamo assolutamente perdere questo traghetto. Sorpassiamo strombettando un convoglio di Land Rover super acchittate per il fuoristrada estremo ed alzando un polverone e facendo un casino disumano entriamo all’imbarcadero attirando l’attenzione di tutti. Scendiamo dalle moto al volo e facciamo cenni agli uomini sul traghetto, urliamo a squarciagola in questa gola di montagna che amplifica all’inverosimile la nostra voce. Dal ponte con le mani ci fanno segni di stare calmi. Siamo contenti, ci siamo riusciti, ce l’abbiamo fatta.
E invece no. La delusione nel constatare che il traghetto non era tornato indietro a prenderci, ma stava semplicemente attraccando avendo concluso la sua ultima corsa, ha il gusto di uno schiaffo in faccia appena svegli la mattina. La prossima corsa ci sarà domattina alle 9.00.
Parliamo con il comandante di questa bagnarola di ferro. Lui ci offre un posticino per la notte: ci dice che possiamo montare la tenda nella stiva. Ma saliti a bordo vediamo che il pavimento è di ferraccio gelido ammaccato dalle ruote dei vecchi mezzi pesanti e si sente un odore forte di gasolio e lerciume vario che ci ammazzerà silenziosamente nel sonno.
Al molo tranne il decadente bar dei marinai non c’è nulla. E tra il dormire nella fetente stiva della nave andando incontro a morte certa oppure nel bar dei marinai, che ora quasi ci ammiccano, andando in contro a qualcosa di peggio e soprattutto più doloroso, decidiamo di fare strada e tornare indietro verso il primo centro abitato.
Prenotiamo 3 posti ponte per il giorno successivo, salutiamo il comandate e i marinai del bar, montiamo in sella e via. Via verso il primo incrocio dove avremmo dovuto girare a sinistra. Indovinate chi stava davanti? L’Afghano!
Dopo un numero di curve tendente a infinito e solo dopo aver superato una decina di passi alpini ci fermiamo con il sentore che il nostro incrocio l’abbiamo superato da un pezzo. Guardiamo la mappa per vedere dove siamo finiti. Stanchi e infreddoliti più che mai e con ancora tanta, troppa strada da fare, abbacchiati facciamo spallucce e risaliamo in sella verso l’ennesimo pomeriggio a sperare in una botta di culo che ci salvi da un’altra notte gelida in tenda.
Ancora salvi
La velocità media è bassissima per via delle infinite curve cieche da affrontare, il rettilineo più lungo sarà si e no 50metri, la strada è un budello maledetto. Le ore piccole in Kosovo e la stanchezza ci piegano, sulla cartina il prossimo paesino è lontano anni luce. Tutto attorno montagne e abeti, siamo a 1200 metri di altezza e inizia a fare freddo.
Trovo L’Afghano con gli occhi lucidi singhiozzante che mi guarda incredulo ai piedi di un cartello: Hotel Alpin 3km. Non ci posso credere anche stavolta va a finire che ci salviamo.
L’ Hotel Alpin è una baita sperduta nelle Alpi Albanesi sulla strada SH22 a Sud del fiume Drin. Stamattina abbiamo percorso la strada subito a Nord, ora come dei deficienti patentati stiamo tornando inutilmente indietro. Le camere sono semplici, grandi, con wifi lentissimo ma gratuito, si respira un ambiente caldo e confortevole. C’avessero chiesto anche mille euro a testa glieli avremmo dati senza discutere minimamente. Potrebbe essere proprio un bel posto se non fosse per quell’orrenda gabbia in cui tengono chiusi due orsi.
Nemmeno ci cambiamo e ci buttiamo stanchi morti a letto. Un pisolino prima della cena ci sta proprio bene. Lo stanzone al piano terra funge da ristorante e contemporaneamente da ritrovo per le genti che abitano qui tra le montagne. Tutti vestiti con grosse e pesanti camice di flanella a scacchi scozzesi, fuori fa davvero freddo. La TV passa immagini di Berat allagata, le previsioni meteo mettono temporali su tutta l’Albania. Ordiniamo delle birre per non pensarci.
Il cameriere che assomiglia in aspetto e modi di fare a Lurch della famiglia Addams ci parla con una flemma soporifera. Non riusciamo a farci capire e del menu non capiamo nulla. Ordiniamo tutto. E ci arriva di tutto. Mangiamo abbondantemente e pesantemente e questo avrà conseguenze terrificanti sulla notte insonne che ci attende.
“Notte inverosimile con Andrea che fa incubi agitati mentre sogna Fabio che russa. Io che canto e Fabio che assiste alla scena dopo essere stato svegliato da Andrea che lo sgrida che sta russando troppo”
(riporto direttamente gli appunti presi sulla mia moleskine)
Parco nazionale di Thethidi
Lasciamo l’Hotel Alpin di buon ora dopo un’abbondate colazione e una violenta colluttazione tra di noi. Abbiamo le mutante pulite contate e ormai ce le rubiamo a vicenda. Diamo un’ultima sbirciata alle previsioni meteo che passano in TV e poi via.
A Berhat piove, a Gjirokaster piove, a Durazzo piove, a Tirana piove. Non ci resta che Theth, sperduto villaggetto isolato nel Parco Nazionale di Komberat Theti. La valle in cui si trova è di una bellezza cruda, aspra vera. Impossibile non amarla, non rimanerne stregati. Una vegetazione fitta di boschi di abeti, castagni, pini che si arrampicano su pareti rocciose, montagne che toccano i 2500 metri di altezza, torrenti gelati di acqua trasparente. Una fiaba grezza.
Per arrivare a Theth ci sono solo 2 strade. Anzi … di strade ce n’è una sola, quella che ora hanno asfaltato per metà. L’altra invece è una non-strada. Arrivati all’incrocio non avevamo scelta. Drogati di disagio ci avventuriamo sulla non-strada senza sapere quanto fosse lunga, quanto tempo e in condizioni fosse. Tutte le premesse per un bel pomeriggio di enduro e di amici.
Theth e l’Enduro imperiale
Stavolta il Saraceno ce lo giochiamo davvero. Fabio è al suo primo viaggio in fuoristrada e si ritrova su un tratturo di pietre grosse e breccia che deve affrontare con la sua poca esperienza, ma la cosa più difficile per lui è gestire la compagnia dei suoi compari di viaggio. Io e L’Afghano, ormai due Gremlins impazziti, in preda a scosse di euforica libertà tassellata e con il polso posseduto dal Demone dell’Enduro invece di aspettarlo e stargli vicino e aiutarlo nei punti più rognosi, lo abbandoniamo al suo destino.
Un’ora di puro godimento, una sudata biblica e ci giriamo indietro per la prima volta: “e il Saraceno dove sta?”
Torniamo indietro per recuperarlo e molto prima di arrivare da lui sentiamo l’eco di bestemmie che il Saraceno snocciola come cantilena mentre procede zampettando. Facciamo pace stringendoci il mignolino come si fa da bambini e io davanti e Andrea dietro, scortiamo Fabio verso Theth. Ad ogni passaggio ostico cerco di impartigli lezioni di enduro e mostrargli come affrontare l’ostacolo.
Per strada chiediamo informazioni a chiunque incontriamo. Ma ci rispondono vagamente e con kilometraggi e tempi irreali: “20km, 50km, 137km, 3 ore, la strada è un’altra, bho, c’hai una sigaretta?”. Ciò ci fa capire che molte delle persone che vivono qui non si sono mai spostare dai loro villaggi e che a Theth non ci sono mai stati. Il Saraceno ormai stufo comincia a dare di matto.
Ora sei davvero nei guai
Fabio sentendosi “protetto” riesce a tenere il passo, recuperiamo strada e manteniamo un’andatura piuttosto decente. Una striscia scura al centro della carreggiata attira la nostra attenzione e nemmeno il tempo di chiederci cosa fosse ed ecco che a 100 metri da noi due ragazzi vicino ad una Honda Varadero fermi mentre tengono tra le mani un qualcosa. Ci avviciniamo e vediamo sui loro volti un sorriso accogliente sicuri di ricevere un aiuto sperato da ore, isolati in attesa in questa valle sperduta.
“Ma l’avete trovato qui sto pezzo?” Il primo a parlare è il Saraceno.
I due speranzosi ragazzi che prima avevano il vago sentore di essere nei guai ora ne prendo atto a tutti gli effetti. Capiscono che non gli saremo per nulla utili, anzi. Ci salutano dicendoci che hanno chiamato un loro amico e che entro sera passerà a prenderli.
La striscia scura a terra che finisce esattamente sotto il motore della Varadero altro non era che olio motore. La cicciona della Honda avendo poca luce a terra ha preso uno scoglio spaccando la coppa dell’olio. Lo squarcio è enorme, irreparabile. Non avremo potuto fare nulla.
Altra strada, altri saliscendi di pietre spacca braccia. Ormai guidiamo da ore e non sappiamo minimamente quanto manchi. Per fortuna c’è sole alto e cielo limpido, ma le pause sono sempre più frequenti e la stanchezza inizia a farsi sentire. Ci rinfreschiamo ad un baretto di legno e fuscelle e un’infinità di lattine buttate al lato. Chiediamo al ragazzo all’interno quando manchi a Theth ma la risposta è la stessa: “Bho!”
La strada è imprevedibile, a volte spiana e diventa di terra dura e ci lascia riposare le braccia, ma bastano poche decine di metri e il fondo cambia, diventa di canali profondi, poi pietre dure che scricchiolano le ossa e tutte le giunture della moto. Fabio è ormai morto, è la moto che guida lui mentre incazzato nero usa le sue ultime forze per fare lo spelling di parolacce e volgarità che gli rimbombano dal casco.
Gli ultimi kilometri sono infernali. Una distesa infinita di massi bianchi che riflette il sole e acceca gli occhi annullando le ombre e nascondendo buche, avvallamenti e asperità. Dall’alto sembra polistirolo grattugiato. Una sorgente finisce direttamente in strada e ora ci troviamo a guidare su un piccolo torrente.
Arriviamo a Theth provati, decisamente provati.
Lancia la moto su un muretto, butta via il casco. Il Saraceno è sull’orlo di una crisi e in preda a spasmi non riesce nemmeno ad accendersi una sigaretta. Parla senza senso esprimendosi in un idioma a noi sconosciuto: il Milanese.
Passiamo la serata a rilassarci attorno ad un falò fuori la guest house dove abbiamo preso una stanza. Sopra un cielo puntellato di stelle che ci rasserena l’anima e rasserena anche il Sarceno e i suoi spasmi si fanno meno violenti.