
01 Ago Sretan put! Girotondo balcanico 2007
Se siete appassionati di camion di tutte le marche specie di quelli più inquinanti i balcani potrebbero interessarvi; se in più siete curiosi di scoprire i vari appostamenti della polizia per multarvi allora precipitatevi in agenzia e prenotate il traghetto.
La partenza
Quest’anno il viaggio è stato deciso da Daniela: io, ancora scosso dai 6.500 km dell’anno scorso, avrei optato tranquillamente per la paciosa e ridente provincia di Rieti mentre lei, con un perentorio “Andiamo a conoscere luoghi e genti diverse!”, mi ha risvegliato dall’apatia e fatto pendere l’ago della bilancia per i meno tranquilli balcani. Una volta detto e deciso (sabato 19 agosto) c’era poco da fare: la moto era ancora pronta e si stava prendendo un aperitivo in garage dopo la passeggiata in Sicilia, e i panni appena puliti e asciugati stavano ancora sopra il comò. Cinque minuti e Daniela aveva “organizzato” il viaggio: “….mmmmh….allora….ANDIAMO QUI, QUI E QUI!”, totale 3.000 km., niente, un sospiro. La notte la passo a consultare mappe e siti internet e poi in bianco a letto a pensare di stare a fare una cavolata. Domenica mattina arriva, a rasserenare il mio animo un po’ pauroso, la telefonata di Max: viene pure lui con Valeria e due moto, ma ci raggiungeranno al porto che hanno delle cose da sbrigare…che dico? Dico che sono felicissimo e adesso, finalmente motivato e sereno, posso cominciare ad impacchettare tutto. Prenotazioni zero ma antipioggia pronte e infatti sull’adriatica prendiamo un temporale. In scioltezza arriviamo al porto di Inancona dove faccio il biglietto in attesa che ci raggiungano gli altri due temerari. Compriamo pizza e panini per tutti per affrontare la traversata ma poco dopo arriva una telefonata di Max………..qui mi devo interrompere in quanto Max mi ha espressamente vietato di raccontare i fatti, ma la mia onestà intellettuale, la mia purezza d’animo e il rispetto che nutro nei confronti di Voi, miei quattro lettori, mi impone, come minimo, di elencare un ventaglio di versioni dalle quali poi Voi potrete scegliere quella che più Vi piace e che se poi risulterà combaciare con la realtà Vi darà diritto a tre lezioni gratuite di “smollicamento” da parte di Max con prova pratica alla fine del corso.
Ordunque le versioni:
a) la pioggia incontrata sulla strada ha investito in proporzioni gigantesche anche la coppia Max-Valeria che in preda ai flutti è stata tratta in salvo dall’arca di Noè, comandata da un babbuino, come unica coppia umana;
b) un gatto lanciato in corsa da un pullman di turisti ceceni musulmani in viaggio per un’udienza papale privata, si è infilato nel casco di Max rimanendo impigliato nei suoi capelli;
c) Valeria ha scoperto che gli occhi di Max non sono celesti ma che l’abbindolante colore che fa stramazzare le donne a terra, altro non è che un volgare trucco dato da due altrettanto volgari lenti a contatto colorate;
d) si è rotta l’Africa Twin;
e) io e Max litighiamo perché gli ho preso un panino con dentro roba che non gli piace;
f) c’era stato un misandestending e invece di “Serbia” avevano capito “Cervia”;
g) Valeria ha dimenticato la patente a casa (ma non un sacco a pelo da spedizione artica), si decide di chiamare l’ottimo Palì che si dovrebbe portare a casa la moto di Valeria così, mentre noi facciamo il trasbordo dei bagagli sulla moto di Max, Valeria va ad imbucare alle poste una cosa importantissima, poi (e sono le 20,30 e il traghetto parte alle 21,00) Max corre a fare i biglietti ma Valeria non ha la carta d’identità valida per l’espatrio ma fortunatamente c’ha il passaporto però senza marca, “Niente paura!” dice Max, “Io ne ho due” e, pagati 129 euro di biglietti, si precipita al posto di polizia per il controllo finale (ore 20,50) ma torna con una faccia da funerale perché il suo passaporto, mentre corre da un posto all’altro, è scaduto, e intanto a noi ci viene da piangere e Palì muore dal ridere e ci prende per il culo: ” Seeeeeee gli sporchienduristi!!!!!”.
Si lo so che l’ultima versione è troppo inverosimile per essere vera, però cercavo di allungare la pappa e non rendere troppo facile la risposta, fatto sta che con la morte nel cuore io e Daniela a capo chino prendiamo la nave da soli…..no, non siamo soli: la nave è colma di pellegrini diretti a Medjugorje che tra un alleluia e un altro, strilli, canti, discoteca, e il solito materassino bucato, ci fanno passare una notte infernale. Amen.
Ringalluzziti sbarchiamo a Spalato (Split), sul piazzale un ragazzo con una vecchia AT è fermo; “Hai i cavetti?” I cavetti? Ti pare che uno in moto si porta i cavetti? “Certo che ce li ho!” Ma purtroppo basta una spintarella e riparte. Sretan put (buon viaggio) pure a te.
Cambiamo il minimo indispensabile, facciamo colazione e partiamo in direzione della frontiera; prima tappa Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska –Bosnia settentrionale.
Qui è d’obbligo una precisazione: la Bosnia-Herzegovina (BiH) come unica entità nazionale è un’utopia creata a tavolino con gli accordi di Dayton del 1995. La stessa bandiera, in cui il triangolo giallo in campo blu che rappresenta la forma geometrica del Paese e le tre etnie fondamentali che la compongono (serbi-croati-bosniaci), è stata disegnata e imposta dall’esterno.
Ma che le cose in Bosnia-Herzegovina alla prova dei fatti siano diverse, si capisce subito dopo aver varcato la frontiera con la Croazia. Tutti i paesi e i villaggi che si incontrano nella prima fascia a ridosso del confine e a volte anche più all’interno, espongono su pennoni, lungo le strade, sulle case e dipinte sui muri le bandiere croate. Qualche rara moschea rivela la presenza di una immagino timida comunità musulmana. A mano a mano che ci si addentra in Bosnia le cose cambiano: le moschee prevalgono, spariscono le bandiere croate e si attraversa la Bosnia che non ti aspetti: boschi, fiumi, verdi colline e montagne, l’aria è così pura che “pizzica nel naso”, si susseguono paesini di montagna con i tetti spioventi dai quali dietro spunta, a sorpresa, un minareto.
Purtroppo cominciamo a notare anche parecchie case sforacchiate dai proiettili o bruciate e lungo la strada piccolissimi cimiteri o tombe singole e capiamo che non sono in memoria di morti in incidenti stradali.
Si entra nella Repubblica Srpska, un’entità omogenea dal punto di vista etnico (schiacciante maggioranza serba) e di nuovo e in maniera repentina il panorama cambia: ricompaiono cattedrali e chiese ortodosse e sono il nazionalismo e le bandiere serbe (sulle quali campeggia il motto “Solo la Serbia Salverà i Serbi”) a farla da padrone.
Banja Luka
Arriviamo a Banja Luka e troviamo alloggio in un pulitissimo ed elegante albergo dove ci offrono da bere; Daniela chiede furba un tè caldo io, scemo, e con una lingua ridotta come una felpa di pile, uno freddo. A lei portano il classico tè fumante a me un bicchiere di acqua di rubinetto fredda con a mollo una bustina di tè….aspetto che il gestore si giri e svuoto tutto il bicchiere dentro un vaso di fiori che appassiscono immediatamente. Rimango con una sete terribile ma i batteri balcanici non avranno mai il mio scalpo.
Ci dirigiamo in ciabatte nel centro di Banja Luka e qui veniamo coinvolti in uno struscio notevole.
Non mi posso dilungare troppo sulla bellezza delle ragazze slave per non urtare la suscettibilità e la gelosia di Moroboschi. Il mattino dopo ripartiamo, il tempo è nuvoloso e la temperatura è gradevole, usciamo dalla Bosnia ed entriamo in Croazia per prendere la direttrice Zagabria-Belgrado. La frontiera mostra evidenti e tristi i segni del conflitto: le case lungo la frontiera sono crivellate di proiettili e ampie zone sono minate e delimitate da nastri rossi; cartelli e buon senso consigliano di non abbandonare le strade principali.
Al casello Daniela dà il meglio di se stessa: sarà il caldo, ma alla domanda del casellante: “Deutsch?” lei risponde: “Noi no Deutsch, noi Kune!” disegnando lì per lì sulle carte geografiche d’Europa un nuovo stato sovrano, Kunia con capitale Kuna che assomiglia stranamente alla moneta croata. Quello la prende per scema, io ingrano la prima e piegato in due dalle risate imbocco l’autostrada per Novi Sad.
Novi Sad
L’autostrada corre veloce inseguita dal termometro che comincia a salire in maniera preoccupante. Arriviamo alla frontiera serba con più di 42 gradi. Entriamo in relativa scioltezza mentre dall’altra parte in uscita si intravede una fila di tir lunga km. Obiettivo Novi Sad, attraverso il parco nazionale di Fruska Gora l’unico parco nazionale coltivato a…granturco! Procediamo a 3000 giri, 60 km/h come del resto per gran parte del viaggio e mi sto chiedendo dove siano le famigerate pattuglie di polizia serba, quando ecco pararsi in mezzo alla strada un poliziotto. C’ha tutto l’occorrente per incutere timore: berretto, paletta, pistola e, cosa pericolosissima, c’ha sicuramente caldo. Vado talmente piano che mi fermo ancora prima di raggiungerlo e do qualche pedata per arrivare fino alla paletta. Ci guarda fortemente perplesso, chiede i passaporti, la carta verde, il libretto di circolazione, la patente, la tessera sanitaria, quella del tram, un biglietto usato del cinema e lo scontrino della Lidl. Non bastano! Insiste sui “kubica” della moto che sono incompatibili con la mia patente “B” presa nel 1985. Mi balena l’idea di convincerlo che l’Africa Twin sia un 50cc ma guardo la pistola e desisto. Sbatte nervosamente i documenti in mano poi guarda la targa e legge “Roma”. Mi fa: “Roma? Lazio?” Ho pochi secondi per decidere il mio destino in Serbia che è incredibilmente affidato alle simpatie calcistiche di un poliziotto serbo dai denti marci, Daniela mi dà una gomitata e mi dice sottovoce: “Digli Roma” ma al cuore non si comanda e con il timore di essere fucilato sul posto grido con orgoglio: “LAZIO!!!!!”. Il poliziotto mi urla in faccia: “Dejan Stankovic!” Lo vorrei baciare, mi ridà i documenti e mi fa cenno di proseguire. Sono contento e incavolato al tempo stesso: possibile che la Motorizzazione Civile non preveda per i possessori della vecchia patente una pecetta adesiva per renderla conforme al resto d’Europa? Boh….
Attraversiamo il ponte sul Danubio con le sue spiagge affollate di bagnanti mentre due chiatte lo attraversano lentamente e ci ritroviamo al centro della seconda città della Serbia: Novi Sad. Discutiamo con un cafonissimo albergatore e ripieghiamo sull’albergo vicino non pentendoci della scelta. Doccia veloce e passeggiata nel centro di quella che è una vera bomboniera serba.
Mangiamo benissimo in una trattoria dove cominciamo ad assaggiare le specialità balcaniche con soddisfazione. Ci svegliamo l’indomani e proseguiamo nel ciabattamento turistico poi ci rimettiamo in marcia direzione Belgrado.
Beograd
Entriamo a Belgrado dalla via principale e immediatamente ci arriva un pugno nello stomaco: interi palazzi sventrati, anneriti, crollati, bocche sdentate che una volta erano finestre ci guardano dai lati della strada.
Comprendiamo il significato di bombardamento selettivo. Peccato che le schegge di una bomba intelligente diretta su un palazzo governativo non siano poi tanto intelligenti e vadano per conto loro a sfondare anche i palazzi vicini con la gente dentro. Siamo stremati da un caldo feroce. Il traffico è quello di una grande città all’ora di punta e quindi, scartato il primo albergo a 135 euro, ripieghiamo velocemente sul più economico Bristol a 40 euro che se manca di aria condizionata, sia leggermente fatiscente e carente di altri essenziali dettagli per consentire un ottimo soggiorno è dotato di un sicuro ricovero per la moto e di un impiegato di una gentilezza commovente. Ci dà una mappa della città e ci indica i principali luoghi da visitare compresi i palazzi bombardati e quando il suo dito ci arriva sopra commenta amaro: “Ora siamo in Europa, ora abbiamo la democrazia”. Ci aspettano 6 ore di camminata a piedi per Belgrado in un caldo torrido.
Visitiamo la fortezza e i giardini, poi ci dedichiamo alla grande isola pedonale, a seguire la zona governativa con i suoi spettrali palazzi: non si potrebbe fotografare ma con un minimo di attenzione e con la complicità di un poliziotto che ci indica il punto non coperto dalle telecamere di controllo, scattiamo delle foto.
Poi mentre si scatena un diluvio che invece di abbassare la temperatura la innalza a livelli tropicali, ci dirigiamo verso la cattedrale di Svetog Save poi con un’altra scarpinata e con difficoltà troviamo la via Skadarlija e il tanto decantato ma un po’ deludente quartiere bohemien. Sui gomiti ci trasciniamo in albergo talmente stanchi che il gran caldo e il flusso ininterrotto di tir sotto la finestra hanno l’effetto di un definitivo sonnifero.
Kosovo/Kosova
Lasciamo Belgrado per affrontare quella che sarà la giornata più terrificante della mia vita motociclistica 300 km. In un caldo soffocante, con la voglia di strapparti tutta la roba di dosso. Il giubbetto sembra fuso sulla pelle, l’asfalto tremola e il termometro arriva a 46,5°, c’ho le allucinazioni e infatti attraverso lo specchietto vedo il casco di Daniela ma mi sembra di avere un pappagallo colorato appoggiato sulla spalla. Comincio ad avvertire una leggera vibrazione anomala proveniente dal poderoso bicilindrico Honda. Beh, quasi 120.000 km. sarebbe pure giusto, ma non qui ti prego, ti prego, ti prego resisti, quando torniamo a casa ti metto a riposo ma non mollare adesso, per favore. Passiamo Nis ma non ci fermiamo; con questo caldo sarebbe impossibile solo scendere dalla moto, ci si è incollata alle chiappe. Ci avviciniamo inesorabilmente al confine con il Kosovo: che facciamo? Lasciamo perdere e ripieghiamo in Montenegro? La scelta è difficile, scorrono i cartelli con l’indicazione di Sofia e Skopie rispettivamente in Bulgaria e in Macedonia. Mi perdo in fantasticherie e allucinazioni ondeggianti tra Marco Polo, Paperino e “Chi l’ha visto?” e ci ritroviamo diretti verso la misteriosa e temibile frontiera serbo-kosovara. Ci addentriamo tra le montagne serbe e ad un incrocio senza nessuna segnalazione, ci affianca una macchina con targa italiana: “Avete bisogno di aiuto?” La donna parla bene l’italiano, l’uomo al volante un po’ meno, uno sguardo rapido al sedile dietro e due bambini sorridono…mi fido… “Dove siete diretti? Pristina? Venite con noi che vi offriamo da bere!” E così ci ritroviamo sotto una pergola di un bar in uno sperduto paesino serbo al confine kosovaro seduti al tavolino con una famigliola serba. Chiacchieriamo per più di un’ora. Loro sono grati all’Italia per averli accolti nel momento peggiore della loro vita; rimaniamo colpiti dai sacrifici che hanno dovuto affrontare in piena guerra per cercare di dare un futuro e un’esistenza dignitosa a loro stessi e ai loro figli. Lavorano in Italia e adesso i figli li hanno raggiunti dopo tre anni di completa separazione dal padre e un anno e mezzo dalla madre, studiano in Italia e sono perfettamente integrati. Tornano qui per le loro vacanze. Quando “Sergio” mi dice: “Grazie Italia” ammetto di aver a stento trattenuto qualche lacrima. Con semplicità e onestà mi racconta di non aver mai avuto in 15 anni di lavoro nessun tipo di problema con le persone di etnia albanese. Dice che la povera gente non ha mai voluto la guerra e che in quella zona, sconvolta dalla pulizia etnica, la pacifica convivenza tra le varie etnie era la regola. “La guerra la vogliono i politici e la fa la povera gente” dichiara con la tristezza di chi ha dovuto abbandonare il proprio paese per non morire di fame o ammazzato. Ci salutiamo abbracciandoci e baciandoci e dopo un’ultima strombazzata di clacson affrontiamo i rimanenti ripidi km, disseminati di sbarramenti anti-carro, che ci separano dalla frontiera. Arriviamo in cima ad una cresta al posto di frontiera serbo. C’è una baracca da cui esce un poliziotto serbo che urla e si sbraccia che mi sono fermato forse troppo vicino. Poi esce un poliziotto cicciottello, a gesti ci dice di riposarci all’ombra e mentre controlla i documenti ci offre da bere un bicchiere di coca cola. A venti metri c’è il Kosovo. Passiamo indenni e ci becchiamo un bel “Welcome to Kosovo”. Passaporti controllati ma non timbrati, al posto del timbro ci viene rilasciato un lasciapassare delle Nazioni Unite, e mentre faccio l’assicurazione sento Daniela che cerca di spiegare a dei deficienti di italiani che se entrano in Kosovo non potranno più uscire percorrendo la stessa strada. Il conducente è un presuntuoso e si domanda il perché non può fare come gli pare. Daniela desiste, speriamo che al ritorno gli sparino. Scendiamo giù in folle perché siamo un po’ a secco, spero di trovare presto un benzinaio e mi accorgo che il rumore dal motore è sempre più forte. Entriamo a Pristina. Fa effetto entrare in una città come Pristina.
Dopo averne lette e sentite tante su questa città, cerco di catturare e mettere da parte più sensazioni possibili: gli odori, la gente, i rumori, le immagini. Spero di arrivare presto in centro ed incrociare qualche militare italiano….presto accontentato: mi blocco in mezzo alla strada al fianco di un “Defender” pieno di carabinieri. Blocchiamo il traffico ma nessuno si sogna di suonare per dirci di spostarci. Sorrisi, strette di mano dal finestrino, “Tutto tranquillo ragazzi non vi preoccupate”. Proseguono, incrocio altre due camionette dei CC. Li seguo, si fermano a bordo strada, sono di pattuglia, ci guardano sbalorditi ma ci hanno preso per matti. Uno ci chiede se abbiamo sbagliato strada o se ci siamo andati apposta, poi legge la scritta sulla maglietta e si mette a ridere. Clima sereno, sorrisi e quella tensione che avevo addosso dall’entrata in Kosovo si dissolve insieme alle ossa della mano quando me la stringono per salutarci e noto che Daniela, sebbene guardinga nel dare la mano, è più tranquilla. Rimaniamo a chiacchierare davanti al “Defender” con due carabinieri mentre gli altri, mitra in mano proseguono per la ronda. “Tutto tranquillo rega’?” “Sì, tranquillo, ma stai solo attento alla moto, qui è pieno di moto italiane ma non le guidano gli italiani…” A posto, adesso sì che sono tranquillo.
Finiscono il pattugliamento e ci scortano fino ad un albergo che ci consigliano, saluti e un “Ci si vede in giro”.
Ceniamo al centro di Pristina praticamente sopra alla moto; il primo ristorante l’ho scartato perché poliziotti kosovari mi avevano intimato di togliere, per motivi di sicurezza, la moto da lì davanti. Mi muovo con discreta padronanza nella notte kosovara e riguadagno l’albergo stramazzando a letto dopo essermi assicurato che chiudano la moto in un garage. Mattinata dedicata ai sette musei, le tre pinacoteche e gli innumerevoli e affascinanti monumenti di Pristina…..seeeeeeeeeee…, 10 minuti, qualche foto e già siamo in direzione di Prizren. Lungo la direttrice Pristina-Prizren è un via vai di mezzi blindati della KFOR, corazzati austriaci e tedeschi con le bandiere al vento sfrecciano sulla strada o sono fermi ai posti di blocco. Che la situazione sia piuttosto serena si capisce anche dal fatto che non indossano né elmetti né giubbetti antiproiettile. Gioco a darmi la mano con un bambino kosovaro che si sporge dalla macchina e ride felice. Daniela prende alla lettera i consigli appresi su internet di non fotografare installazioni militari e nonostante le mie insistenze non scatta nemmeno una foto.
Non la perdonerò mai. Incrociamo un funerale con trattore anni ’50 in testa e un carretto trainato dai cavalli con una bara aperta sul pianale. Fa un caldo bestiale e istintivamente trattengo il respiro. Prizren, al contrario di Pristina, è proprio un bel posto!
In mezzo alla cittadina si staglia la moschea di Sinan Pasha che vanta il minareto più alto di tutti i balcani con intorno la chiesa cattolica e quella greco ortodossa; ci sono i militari tedeschi della KFOR con le loro camionette, bevono birra in uno degli innumerevoli locali con tavolini all’aperto. Incontriamo dei simpatici pugliesi che grazie ad un’iniziativa dell’università della terza età italiana e l’università di Pristina, stanno conducendo degli studi sulle origini albanesi di molte popolazioni pugliesi. Ci offrono da assaggiare la boza, tipica bevanda albanese fatta con acqua e mais fermentato: assaggio…lì per lì una schifezza micidiale poi il secondo sorso si lascia apprezzare meglio.
Vengo intervistato dalla TV kosovara che mi chiede di tradurre in italiano un cartello, messo a fianco di un letto con un manichino sotto le coperte, che recita: “Non svegliatemi a meno che non sia arrivata l’indipendenza” non vorrei espormi troppo ma la faccia da combattente dell’UCK di uno della troupe mi convince a dare il mio modesto contributo.
Ci fracichiamo i giubbotti alla fontana della piazza e lasciamo quindi Prizren per Pec o meglio, come consigliato da un carabiniere, Peja (in albanese). Dopo una cinquantina di km. da una laterale sbucano i NOSTRI. Fanti italiani. Qualche sgommata coatta che fa sempre effetto, un po’ di polverone coreografico e si fermano per approntare un posto di blocco. Soliti saluti “Ma ‘ndo annate!” “Sì, tranquillo, ma con alcuni bisogna stare attenti” In effetti l’atmosfera a Pec è leggerissimamente più tesa che negli altri posti. Anche i militari italiani sono più guardinghi, non credono che siamo turisti consapevoli e sono indecisi se annoverarci tra i giornalisti, i pazzi o tutt’e due. Proseguiamo e fermo un’altra camionetta, il conducente mi guarda tra il perplesso e il diffidente finché non capiscono che siamo italiani, strani, ma italiani. Ci indicano la strada per il monastero del patriarca di Pec.
Il Patriarcato è controllato H24 dai bersaglieri per evitare che qualche albanese lo metta a ferro e fuoco per vendetta. Si narra che qui il patriarca abbia benedetto le milizie serbe impegnate nella pulizia etnica. Arriviamo al ceck point dei bersaglieri e ci richiedono se siamo giornalisti…no, non siamo giornalisti…e che state facendo qui? I turisti….i turisti? Secondo me alcuni di loro, veramente allucinati da 5 mesi a Pec, vorrebbero fucilarci sul posto…ma come, invece di andarvene in vacanza in qualche bel posto di mare in Italia, siete venuti in Kosovo? Mah….
La radio gracchia le nostre generalità per il secondo ceck point…”CRRRR…CRRRR….posto di controllo Alfa….passo….avanti Alfa….ci sono due pazz…ehm…due turisti che vorrebbero visitare il monastero….CRRRR…..affermativo….”. Ci ritirano il passaporto e ci fanno un “pass” militare. Chiedo autorizzazione per fare foto: Negativo passo. Alzano la sbarra rossa e bianca e procediamo verso il secondo controllo…Dai Danie’, scatta le foto di nascosto! Madeche, nemmeno a parlarne lei è ligia al regolamento militare e minaccia corte marziale e impiccagione.
Ci ferma una bersagliera alta un metro e mezzo con l’AR 70/90 imbracciato ma pure senza quello la tratterei sempre con estrema cortesia. Scambiamo due chiacchiere e ci fa entrare dal portone del patriarcato. Dentro c’è un giardino curatissimo e la chiesa è veramente molto bella e piena di soldati tedeschi in visita. Uscendo chiediamo alla bersagliera una foto….Negativo passo….torniamo alla sbarra. La bersagliera, spiona, se l’è cantata con il maresciallo sulla questione della foto, chiedo allora di fare una foto lì e stavolta finalmente mi rispondono in maniera diversa: negativo punto e basta. Però ci offrono una bottiglia di acqua minerale italiana. Ma che vi bevete l’acqua minerale loro? Ma che siete matti? Mi sa di sì, ma non per l’acqua. Pec non lascia molto spazio all’idea di passare lì la notte e quindi decidiamo seduta stante di riguadagnare un po’ di tranquillità passando la frontiera con il Montenegro che già conosciamo per ospitalità e relax. Sorpasso una camionetta di carabinieri e saluto…ma pare non basti. Ci suonano e con perentori gesti delle mani ci ordinano di accostare: “Dove andate?” “In Montenegro!” “Venite, facciamo la stessa strada!” PEPPEREPE’ e si riparte verso la frontiera CON LA SCORTA!
I militi kosovari sgranano gli occhi: mai visti due motociclisti italiani scortati fino a su da una jeep dei carabinieri. Maledizione! Ci ritirano il permesso delle Nazioni Unite…niente da fare, nemmeno una foto. Strette di mano ai carabinieri che ci chiedono di salutare rispettivamente Massa Carrara e l’Aquila e piombiamo con un sospirone di sollievo in Montenegro.
Montenegro
La moto fa sempre più rumore e mentre passiamo in mezzo ai boschi montenegrini comincio, più rilassato, a pensare alle possibili cause del rumore: catena di distribuzione? Forse, ma c’ho solo 120.000 km è un’Africa Twin mica un KTM….ad un certo punto l’illuminazione. Vedo una pecora sul bordo della strada, l’associo ai burini e immediatamente mi compaiono le facce dei gemelli, scarto a priori quella del Sinistro che tanto spara solo musica salsera a tutto volume, e mi rimane beffarda quella del Destro…..ILLUMINAZIONE!!!!! CANDELA LENTA! Forse è solo una bastardissima candela lenta come fu per la moto del Destro. Arriviamo in un bel motel e smonto la moto come pinocchio. Infatti: candela lenta. Stringo e rimonto tutto facendo un gran figurone con i camionisti montenegrini che si erano fermati a guardare e commentare. Ceniamo, dormiamo come ghiri, facciamo colazione con 35 euro in due compreso un euro e mezzo di mancia. Bello il Montenegro. Ripassiamo per Virpazar e andiamo a salutare il dottor Dean conosciuto nel nostro precedente viaggio. Ci accoglie meravigliato e felice, ci dice di fermarci a dormire e a mangiare da lui ma ormai c’abbiamo una tale voglia di mare che ci cominciano ad uscire le bolle e così, con la promessa che lo andremo a trovare a bordo della nave da crociera dove lavora non appena attraccherà a Civitavecchia, mi metto dietro un furgoncino che procede ad una giusta velocità verso Podgorica. Con questa “protezione” arriviamo sani e salvi fino alla capitale, scongiurando frontali lungo questa strada che è peggio di una roulette russa come testimoniato dalle troppe tombe lungo il ciglio della strada, che, rispetto a tre anni fa, sono aumentate.
Finalmente arriviamo a Sveti Stefan un isolotto in mezzo al mare unito alla terraferma da uno strettissimo istmo.
Il paesino è di una bellezza straordinaria ma purtroppo, come dettoci da Dean con amarezza e disappunto, pare sia stato venduto in blocco ad una società di Singapore che ne vuole fare la Montecarlo dell’adriatico…all’ingresso del paese c’è un cancello sbarrato con un guardiano che impedisce l’accesso…..una vera vergogna. Conosciamo la costa montenegrina a menadito e così per evitare di passare qualche giorno di mare in posti già conosciuti facciamo un altro piccolo sforzo e attraversiamo la frontiera croata e ci spalmiamo a Molunat.
Due giorni di ozio completo in un paesino di 10 case affacciato su una baia spettacolare, in un appartamento sul mare con accesso privato e sdraio, ci restituiscono le forze e la voglia per proseguire il giro e concluderlo con le ultime tappe.
Mostar
Riprendiamo un po’ a malincuore la moto ma l’obiettivo è di quelli stimolanti: Sarajevo.
Procediamo spediti superando Dubrovnik e poi le frontiere croato/bosniaca-bosniaco/croata: due frontiere in 13 km. Il “puzzle” balcanico qui rasenta il ridicolo. Bivio per Mostar seguendo il corso della Neretva, poi un’altra incasinatissima e lentissima frontiera croato/bosniaca con un caldo pazzesco, piena di camion e pulmann di pellegrini diretti a Medjugorje.
Poi finalmente c’è Mostar, secondo me la città simbolo di questa follia che è stata la guerra nella ex Yugoslavia. Dimostra come l’uomo possa distruggere in un attimo secoli di storia per poi, dove ci sono volontà e mezzi, riuscire a ricucire, almeno apparentemente, delle ferite che sembravano ormai definitive. Il famoso ponte di Mostar (Stari Most, Ponte Vecchio) dal quale la città prende il nome e non il contrario, simbolo ideale di congiunzioni tra cristiani e musulmani, distrutto a cannonate e precipitato nel fiume sottostante il 9 novembre 1993 è stato ripescato e riassemblato come un gigantesco “Lego”.
Certo, la patina di antico che lo avvolgeva e il più profondo significato scolpito secoli fa da operai e scalpellini musulmani e cristiani è scomparso, ma speriamo che gli diano il tempo di riformarsi al suono delle campane da una parte e il canto dei muezzin dall’altra in quello che, con buona volontà, speriamo sia un lungo ed ininterrotto periodo di pace.
Sarajevo
Manca poco a Sarajevo solo 130 km. Ci arriviamo a metà pomeriggio. Sarajevo è adagiata in una stretta valle ed il centro storico è situato, per chi arriva da Mostar, proprio dall’altra parte, verso le montagne; quindi per arrivarci dobbiamo percorrere una decina di km di un vialone con palazzi e case moderne, ma mai nulla di troppo opprimente, anzi la vista può liberamente spaziare a destra e sinistra.
Appena si arriva al centro, che come detto non sta al centro, sembra di essere caduti dentro un paesino di montagna; tutto intorno i pendii delle montagne sono ricoperti di casette con i tetti spioventi e, se non fosse per i minareti, sembrerebbe di stare (quasi) a Selva di Val Gardena. Il già discreto “struscio” si moltiplica con l’approssimarsi della sera. L’isola pedonale si anima di gente che passeggia e mangia gelati in un clima di serenità e compostezza, che a giudicare dalle fotografie del periodo di guerra, gli abitanti di Sarajevo non avevano perso nemmeno quando andavano a fare la fila per l’acqua sotto il fuoco dei cecchini e i tiri d’artiglieria.
Mangiamo con 10 euro in un ristorantino nascosto in un vicolo che, satolli e veramente soddisfatti (il cibo migliore da quando siamo in giro), scopriremo essere lo stesso dove mangiò Clinton durante la sua visita in città. La cosa ovviamente riempie di orgoglio la proprietaria anche se adesso Clinton passerà in secondo piano dopo la straordinaria e onorevole visita di due sporchienduristi.
L’indomani percorriamo altri 300 km di Bosnia centrale facendo caso a come, a fianco di case distrutte dalla guerra, si stiano ricostruendo nuove case, per lo più con intonaci dipinti a colori sgargianti: verde, rosso, arancione e celeste; probabilmente una reazione alle tante nefandezze fatte e subite negli anni passati. Solitari ripassiamo una frontiera, e siamo alla numero 10, per l’appuntamento con la solita bagnarola che ci riporterà insieme a tante esperienze, immagini e speranze, in Italia.
Fine.
Luca
Posted at 07:57h, 29 Marzoun racconto gradevolissimo, grazie mille per averlo condiviso, ironico e dettagliato il giusto! degno di questo simpaticissimo e gradevolissimo sito!!
moroboschi
Posted at 20:10h, 29 MarzoGrazie mille Luca