A prenderli singolarmente, ricordi, foto ed emozioni,
sono pezzi di un puzzle senza soluzione, tasselli diversi, incongruenti, incompatibili
che già da subito si fa fatica ad unirli per iniziare a ricomporre l’immagine di copertina.
Non la dimenticherò mai, quella sensazione,
quel vuoto che svuota i polmoni.
la bocca aperta in una smorfia che deforma lo stupore iniziale
trasformandolo in dolore e poi in paura
la paura di non avere ossigeno nei polmoni
di cercarlo, ispirare, ancora, ma l’aria non entra
non ce la fai a buttarla dentro, ancora, ma nulla
inizi a sentire la bocca secca, la gola arida
i polmoni appassire.
E’ l’inizio, è il primo fotogramma di questo viaggio.
Sembra miele caldo che appiccica le giacche e i pantaloni a pelle
ogni giuntura è impastata all’altra che la sera non ce li togliamo i vesiti, no,
ce li scolliamo di dosso,
indice e pollice, aiutandosi con l’unghia, come si fa con le figurine panini.
Dentro, al coperto, rintanati da lì fuori,
l’aria condizionata ghiaccia il fiato, crepa la pelle ancora calda.
Pausa atemporale che ti da tempo per riprenderti,
ritornare cosciente e ricordare che sei sempre sulla Terra
e non su Marte.
Che è del tutto “normale” quella strana sensazione di nuotare letteralmente lì fuori
visto che l’aria ha un’umidità densa, pesante, pastosa come uno yougurt al gusto di calcestruzzo.
Ma dove diavolo sono finito?
Faccio 2 curve, supero una mandria di dromedari, entro in un banco di nebbia e quasi centro una vacca.
Pioggia, nebbia, fango, montagne, dirupi, panorami da Borneo.
E bancarelle di frutta e succhi di frutta da mille colori,
Vesti arancio, volti neri, copricapi azzurri, kefie rosse, shador fuksia, palandrane bianche
mai vista tanta disparata diversità che danza al ritmo di musica africana.
Salalah, tassello verde Birmania.
uno scherzo della natura ecco cos’è la catena montuosa del Dhofar
a pochi km dalla costa, al confine con lo Yemen,
un’impettata di pietra che, aspra e arida da un lato, argina l’inferno del deserto del Rub’ al-Khali
rigogliosa e verde dall’altro lato, fa da diga alle onde del mare Arabico e alle piogge monsoniche del Kareef
messa lì a separare due oceani, uno di acqua, l’altro di sabbia.
Si passa dai 50° ai 22°. 28 gradi di escursione termica in poco più di 20km,
Dai cespugli spelacchiati alti una decina di cm ad alberi fitti da foresta tropicale
dal piattume sabbioso alle gole e ai dirupi che aprono sul mare.
Ci spingiamo fino al confine, al border Oman-Yemen
300km immersi, sì immersi, ammollo,
tra nuvole e banchi di nebbia, in una pioggerellina fitta e costante
la strada è un susseguirsi di saliscendi che si arrotolano vorticosamente in un budello di curve
che affacciano su dirupi e spiagge
che attraversano villaggi con tanto di santoni e fumi di incenso,
e in spiaggia granchi, uccelli, vacche e dromedari, e un elicottero precipitato.
Ma dove diavolo sono finito?
Rub al Khali
Pesco un altro tassello, stavolta color giallo ocra, il Rub’ al-Khali.
Il Sole, che rende incandescente tutto,
la luce dei sui raggi, in linea retta colpisce ogni molecola del creato
così forte da rendere incandescente ogni cosa,
tanto che non si può toccare nulla,
tanto che non si può nemmeno guardare nulla, che gli occhi bruciano
e le palpebre tendono a chiudersi, a serrarsi per proteggere le pupille.
Michael Jackson che fa l’autostop, dei tir scambiati per grattacieli
miraggi e allucinazioni a deformarci la realtà
che resta reale solo nella sua crudeltà
sono le 8 di sera, e registriamo la temperatura minima, trentanovegradi!
il Sole è così forte da bruciare le dimensioni,
altezza, lunghezza, profondità senza ombra non esistono più,
la strada che fila dritta davanti a noi per migliaia di km
sfuma dopo solo qualche metro in un miraggio costante
e un pannello giallo ocra si ingoia l’orizzonte limitandoci la vista,
confondendoci la direzione.
unica via di fuga è rintanarsi in quel rifugio nero pece che è l’ombra,
in quel cono che va via via assottigliandosi
man mano che il Sole senza pietà sale dritto sulle teste
a rubarti centimetri, a lasciarti paure
a sfiancarti finanche nell’unica cosa che devi fare per restare vivo: bere.
Sparisce il sole in un baleno, come se avessero spento l’interruttore
dalle tenebre si alza improvviso un vento pesante, caldo, carico di sabbia
E’ una tempesta che ulula dalle finestre
colonne di sabbia e polvere si alzano per decine di metri
per sparire poi nel buio della notte serpeggiando sull’asfalto.
E’ un venerdì sera, un venerdì sera di Ramadan
la moschea è piena zeppa
centinaia di persone dentro e altrettante fuori che dentro non ci si sta tutti
centinaia di dishadasha, tappeti, ciabatte e sandali,
un corpo unico che si inginocchia e si rialza e prega.
le strade si svuotano, i rumori si smorzano, le luci calano, tutto rallenta e poi si ferma.
Il silenzio è un mantello che scende improvviso,
contagioso e angosciante avvolge anche noi.
Un vuoto che dura un attimo fermo
che si riempie nuovo non appena la preghiera del muezzin coincide con il tramonto
fine della giornata, fine del digiuno, fine delle fatiche.
datteri e frutta fresca a riempire i tavolini
e lentamente riparte tutto, di nuovo.
Tasselli diversi che ho cercato di incastrare l’uno con l’altro,
Tasselli diversi che nemmeno le temperature infernali del deserto sono riuscite a fondere assieme,
e tutto sembra non avere un senso, fino alla fine, fino all’ultimo km percorso,
fino a quando non abbiamo riconsegnato le moto al Cargo per il rientro a Roma.
E’ solo lì, guardando dall’alto,
affacciandomi dall’oblò dell’aereo che mi riportava a casa
ho capito, e finalmente sono riuscito a vedere l’immagine di copertina
quella che stavo ricomponendo senza comprendere,
una fetta di mondo che mai sarei riuscito ad immaginare
Ho visto misticanza di cultura araba e africana, condita con un pizzico di medioriente,
insaporita da influenze mediterranee, il tutto servito tra oceani e deserti.
Africa e Oriente che si fondono in arcobaleni che esplodono in mille colori.