Orumiyeh (IR) – Van (TR)
28 agosto
Ci alziamo con comodo e alla prima colazione facciamo di tutto per ammortizzare la spesa della suite imperiale.
Poi usciamo e prima di dirigerci verso il confine, proviamo a cercare nuovamente cartoline e francobolli… fortunatamente ci accompagnano ad un edificio dove si tiene una mostra fotografica permanente.
Lì ci regalano pacchi di cartoline favolose ma non hanno francobolli. Allora ci suggeriscono di provare negli uffici postali e ne visitiamo tre ma senza esito.
Alla fine un’impiegata, grazie all’aiuto di un ragazzo che le traduce in farsi le nostre richieste, ci suggerisce di andare alla posta centrale.
Dov’è la posta centrale?
Dall’altra parte della città!
Sono profondamente scoraggiato, non riusciremo mai ad attraversare Orumiyeh con le moto cariche e trovare la posta centrale prima di notte e saranno appena le nove di mattina.
Il nostro traduttore coglie il momento drammatico, molla la fila e i suoi impegni, monta dietro di me mentre Daniela si accomoda dietro Luigi seduta sopra la tenda, e ci porta a destinazione.
Qui la faccenda diventa imbarazzante perché il ragazzo, oltre ad averci accompagnato, appena arrivato allo sportello e chiesti i francobolli per circa trenta cartoline, tira pure fuori i soldi e paga.
A malapena riesco a mettergli in mano un po’ di banconote, poi gli diciamo che gli offriremo il taxi per tornare a casa, ma rifiuta educatamente, sorride, ci stringe la mano e ci augura un buon viaggio.
Sulle scale delle poste centrali di Orumiyeh scriviamo le cartoline e le imbuchiamo poi, inforcate le moto, partiamo in direzione Sero, ultima dogana iraniana prima della Turchia, anzi, prima del Kurdistan.
Cerchiamo di spendere gli ultimi Rial a Sero, poco prima del confine, in un emporio uscito da un altro pianeta.
Sandali di gomma in mezzo a scatole di tonno del Golfo Persico “sudato” (Moroboschi dixit), spaventose marmellate di strani pomodori accatastate in mezzo a spazzole e buste di caramelle, tutto coperto da un pesante velo di polvere.
Acquistiamo razioni “K” per far fronte ad eventuali emergenze alimentari e copriamo gli ultimi km di Iran.
Alla dogana semi deserta sbrighiamo le formalità e ci ritroviamo in Turchia. Daniela, appena varcato il confine, con un gesto liberatorio si toglie finalmente il velo tra i sorrisi d’approvazione dei militi turchi, scoprendo completamente il bozzo enorme procuratole da un insetto che l’ha punta in faccia il giorno prima.
Siamo in pieno Kurdistan, il confine irakeno scorre a pochissimi km alla nostra sinistra. La strada verso Van è deserta ma ci sono elicotteri militari a volo radente sulle montagne circostanti.
L’eco dei turisti tedeschi rapiti poche settimane prima è ancora presente nella mia mente quando un uomo si para di fronte a noi in mezzo alla strada facendo ampi segni di fermarci.
Non si vede nessun altro in giro. Ha un walkie talkie appeso al collo e comunica qualcosa al microfono… ci avviciniamo per capire il perché dello stop e quello dice solo “BOOM!” indicando l’incombente montagna alla nostra destra.
Neanche il tempo di capire di che “BOOM” si tratti che vedo un enorme geyser di polvere, fumo e sassi innalzarsi verso il cielo ed una frazione di secondo dopo un BOATO terrificante accompagnato subito da una pioggia di frammenti rocciosi.
Il Moro che stava di spalle è colto alla sprovvista dall’esplosione, fa un salto tipo Bubka e si rotola a terra pronto a rispondere al fuoco.
Appena la nuvola dell’esplosione si dirada, l’uomo tutto sorridente ci dice “Okkei!” e ci fa segno di proseguire.
La strada è cosparsa di detriti e con stupore ci accorgiamo che dall’altra parte la strada non è bloccata da nessuno.
Cosa sarebbe successo se fossimo venuti dall’altra parte? Boh, mistero.
Usciamo dalla stretta valle e veniamo investiti da un fortissimo vento di traverso che ci sposta letteralmente le moto da una parte all’altra della strada fortunatamente semi deserta.
La fatica per tenere le ciccione in carreggiata è enorme e il supplizio finisce esattamente all’imbocco della valle opposta dove, visto ormai l’orario, al primo villaggio accostiamo e ci fermiamo per mangiare.
Entriamo in un locale da Far West con avventori rigorosamente tutti uomini e con vere facce da capestro.
Ci trattano con tutti gli onori e ci liberano il miglior tavolo della sala.
Mentre ci accomodiamo, un militare turco in mimetica entra, butta rumorosamente il Kalashnikov sulla panca e si siede al tavolaccio accanto.
Questa è la conferma che volevamo: siamo in pieno Kurdistan, quello vero.
Cominciamo a cercare la benzina ma è una ricerca vana: tutti i distributori hanno solo gasolio; la benzina, di qualsiasi tipo, è esaurita.
“Provate al prossimo” è il ritornello kurdo.
Cominciamo a fare i conti con l’autonomia delle Africa e i km, ancora molti, forse troppi, che ci separano da Van, la prima vera città e traguardo ipotizzato di questa giornata.
I continui posti di blocco fissi, anche a brevissima distanza uno dall’altro, con carri armati, mitragliatrici e sacchetti di sabbia e quelli volanti improvvisati da reparti speciali della polizia turca in borghese, non fanno che esasperarci.
E fermati, spegni la moto, aspetta il tuo turno, favorisci il passaporto, togliti il casco, da dove venite, guarda che c’è pure scritto sul passaporto, documenti della moto, targa A come Ankara, E come Edirne 39… inserita nel pc, riprendi i documenti, rimettiti il casco, riaccendi, riparti.. e rifermati, rispegni… roba da far perdere la pazienza ad un bonzo morto.
Figuriamoci i kurdi le cui macchine e pulman vengono completamente perquisiti alla ricerca di armi e tutti i bagagli e le mercanzie rovistate e gettate a terra senza troppi complimenti.
Ci girano le palle a noi, figuriamoci a questi che subiscono il trattamento ogni giorno e ogni cento metri.
Un motociclista finlandese un po’ timido si unisce a noi appena capisce che c’abbiamo la parola d’ordine stampata sui passaporti per spicciarci un po’ con i soldati turchi.
A volte la cosa ci si ritorce contro perché vogliono elencare tutte le squadre di calcio italiane che conoscono… è il prezzo della notorietà e abbozziamo falsamente serafici.
A mano a mano che ci allontaniamo dalla zona “calda” i posti di blocco si fanno più diradati, i soldati meno nervosi e i controlli più veloci.
All’ennesimo benzinaio sprovvisto di carburante ci chiamano in disparte con fare circospetto per venderci benzina di contrabbando direttamente da una caraffa. Per spirito d’avventura rifiutiamo altezzosi e proseguiamo.
Quando ormai ci stiamo quasi rassegnando a spingere le moto ormai quasi a secco, ecco apparire il cartello che indica l’entrata a Van.
In folle imbocchiamo nel primo distributore e facciamo quasi 23 litri di benzina ciascuno, festeggiando l’avvenimento e lo scampato pericolo, con bibite ghiacciate, biscotti turchi e una bella pisciata liberatoria.
Ci acquartieriamo in un discreto albergo sulle rive del lago di Van, proviamo a cenare fuori ma veniamo assaltati e respinti da milioni di insetti volanti; allora ci accomodiamo dentro e per la prima volta dopo settimane di astinenza visiva ricominciamo a vedere individui di sesso femminile abbigliati secondo standards occidentali.
Van – Tatvan – Nemrut – Diyarbakir (km 557)
29 agosto
Usciamo dall’albergo e le moto sono ancora lì incatenate, per la prima volta in questo viaggio, alle colonne d’ingresso.
Rabbocchiamo l’olio e partiamo in direzione della vicina Tatvan dove ci fermiamo per chiedere informazioni sulla strada da prendere per il cratere del Nemrut. Incontriamo di nuovo il solitario finlandese che leccando un gelato ci comunica che se ne torna a casa a tappe forzate (!).
Troviamo il bivio per il vulcano e lo affrontiamo; i primi km sono terrificanti: stanno asfaltando tutto in Turchia e questa splendida strada sterrata a breve sarà una schifezza tutta nera e unta.
Il problema è che si passa dove hanno appena asfaltato o dove lo stanno per fare, quindi km di bitume fresco alto quindici cm o ghiaia altrettanto profonda e traditrice.
Con un sospiro di sollievo, dopo una decina di km di pura personale agonia, rimettiamo le ruote su un più sicuro e piacevole sterrato.
Intorno al cratere ci sono una miriade di strade bianche che si perdono chissà dove e non potendo trovarle sulle carte fermiamo una pattuglia dell’esercito turco che ci indirizza correttamente.
Svalichiamo una cresta brumosa e ci fermiamo estasiati: da una parte la pianura con il lago di Van che si perde all’orizzonte confondendosi nei rilievi circostanti e dall’altra parte il cratere del Nemrut con la cresta ad oltre 2.900 metri e il suo specchio d’acqua verde azzurro.
Scendiamo nel cratere e ci fermiamo nello spiazzo del “resort” allestito da un simpatico tagliagole kurdo poliglotta di nome Mehmet che ci si fa incontro sorridente e ci accoglie amorevolmente decantando la bellezza del luogo e le sue amicizie planetarie.
Dopo aver visitato l’imponente ed elegante struttura ricettiva gestita dal kurdo ed aver degustato la ricca e variegata cucina locale, ci avventuriamo a piedi sulle sponde del lago per valutare un eventuale tuffo ristoratore dopo aver appreso che in alcuni punti è meglio non immergersi per non essere “lessati” dall’acqua bollente.
Curiosi vermicelli presenti nello specchio d’acqua non bloccano gli ardimentosi sporchienduristi, rotti a ben altro tipo di esperienze, ma inducono ad un bagno breve, seppur coreografico, per evitare spiacevoli intrusioni degli invertebrati nelle mutande e, dio ce ne scampi, oltre.
L’aria calda e il vento che spira piacevole ci asciugano in pochi minuti poi, accompagnati da un altro kurdo, ci allontaniamo dall’accampamento per andare a visitare il loro “frigorifero” che altro non è che una spaccatura tra le rocce circostanti da dove soffia un’aria gelida proveniente da non si sa dove utilizzata per tenere in fresco bibite e vivande.
A questo punto ci sono due alternative: passare la notte accampati alla peggio lì per godere dell’impareggiabile esperienza di dormire in un cratere vulcanico sperando di non essere uccisi durante il sonno, o risalire la china e riprendere la strada per la civiltà.
Probabilmente se non avessimo avuto ancora fresca nella memoria e nelle ossa la notte passata all’addiaccio nell’Azerbaijan iraniano, sicuramente ci saremmo lasciati incantare dai “sireni” kurdi, ma una breve consultazione e il rapido balenare di una lama di coltello nelle mani di uno di loro, fanno sì che si decida democraticamente il da farsi, e con due voti contro uno e dopo aver pagato due lire turche e firmato il libro degli ospiti, riprendiamo le moto e ce ne trotterelliamo allegri e appagati giù verso Tatvan.
E’ il primo pomeriggio e ci aspettano ancora centinaia di km di niente prima di arrivare, distrutti dalla fatica e dall’incertezza sul dove passare la notte, a Diyarbakir.
Senza tante storie prendiamo alloggio in un eccellente albergo dove, complici un centinaio di bellezze locali riunite lì per qualche festeggiamento, birra “Efes” a fiumi e una più probabilmente subdola cipollona kurda ingurgitata il giorno prima, vedo per la prima volta il Moroboschi dare un lievissimo ma sempre virile segno di cedimento.
Diyarbakir – Katha (Parco Nazionale del Nemrut Dagi)
30 agosto
Esco dall’albergo e vedo Moroboschi che purtroppo si è già ripreso ed è in fermento. C’ha la mappa stesa sul cofano di un taxi e si sta facendo indicare non so quale direzione.
Mentre carico le mie carabattole si avvicina tutto trionfante e mi dice di avere una dritta sicura per attraversare su una non meglio identificata chiatta l’Eufrate prima della diga Ataturk e sbarcare dall’altra parte proprio nel cuore del Parco Nazionale e sotto il Nemrut Dagi. La giornata è bella, il sole splende e attraversare l’Eufrate mi sembra un’idea meravigliosa.
Dopo un paio d’ore di guida ci addentriamo, seguendo sempre le indicazioni del tassista di Diyarbakir, che dio lo strafulmini all’istante, su strade che ci accorgiamo difficilmente potranno portare ad un qualsiasi imbarco.
Infatti alla fine di una lunga strada dissestata e fangosa arriviamo in un villaggio dove ci prendono per scemi e ci dicono che lì sono 20 anni che non esiste più il servizio di traghetti per l’altra sponda.
Torniamo indietro fino quasi a Siverek e troviamo, seguendo dei semplici cartelli stradali, il posto cercato.
Ci imbarchiamo sulla chiatta turca e nonostante ci facciano mettere le moto di traverso sulla rampa, ci sembra, al confronto del mezzo da sbarco iraniano di Urmia, di viaggiare sulla Queen Elizabeth II.
Il panorama è abbastanza entusiasmante la strada che porta a Katha è costellata di deviazioni che si addentrano nel Parco Nazionale del Nemrut Dagi e che, non appena trovato alloggio da qualche parte nei dintorni, abbiamo intenzione di visitare.
La solita sosta rinfrancante in un benzinaio patito di tabacco, che ce ne fa anche omaggio insieme al solito chai, anticipa di pochi km l’entrata a Katha e l’acquartieramento in albergo.
Attendiamo che la giornata sfiammi un po’ per salire sul Nemrut Dagi in favore di luce e godere del tramonto in mezzo ai famosi “testoni” di pietra.
Appena possibile e dietro le precise direttive ed indicazioni del simpatico albergatore, prendiamo le moto e ci avviamo per percorrere tutto l’itinerario archeologico previsto attraversando, tra l’altro, un bellissimo ponte romano costruito dalla XVI Legione “Flavia Firma”.
Arriviamo ad una delle entrate che portano fin sulla cima del Nemrut Dagi.
Da qualche parte mi sembrava di aver letto che gli accessi erano due, uno facile, lastricato, con una pendenza non eccessiva e l’altro più impegnativo, proibitivo per la maggior parte dei mezzi, con il fondo inesistente, con curve a gomito su pendenze improponibili disseminate di pietre smosse e ghiaia.
Quale ci è toccherà in sorte a noi? L’unica volta in cui ho seriamente pensato di mollare e tornare indietro è stato qui.
Moroboschi ovviamente pare Nureyev e va su come niente fosse. Io arranco come un brocco azzoppato. Sinceramente se non avessi visto lui davanti e immaginato le prese per il culo successive, sarei risceso immediatamente alla ricerca dell’accesso facilitato.
Arriviamo su ed ho la ferma convinzione di aver percorso i venti km più infami e difficili dell’intero viaggio.
Parcheggiamo le moto e proseguiamo a piedi verso il tumulo di pietre frantumate che si alza a cono per circa 50 metri sulla cima della montagna e che segna il luogo di sepoltura, mai trovato, del re Antioco I.
Aspettiamo il tramonto scattando le classiche foto dalle “terrazze” est e ovest circondati da torme di turisti vocianti, saliti su lindi e pinti e con l’infradito ai piedi.
Il sole tramonta veloce tra le montagne e noi riscendiamo, fortunatamente questa volta sulla strada lastricata, fermandoci a mangiare solitari e accompagnati dalle litanie di un muezzin in un ristorantino lungo la buia ma tranquilla via del ritorno.
Katha – Silifke (598 km)
31 agosto – 01 settembre
E’ incredibile pensare che oggi il nostro obiettivo è Adana.
Due anni fa, diretti in Siria, Adana mi sembrava già una meta lontanissima, quasi irraggiungibile. Quest’anno di ritorno dall’Iran, dopo più di 9.000 km., mi sembra quasi di essere arrivato sotto casa. L’autostrada Osmaniye-Gaziantep-Adana è uno spasso.
Facciamo un pezzo di strada con un gruppo di invasati turchi su moto da strada conosciuti ad un distributore.
Nessun intoppo e un traffico autostradale pressoché inesistente ci permettono velocità di crociera tra i 120 e i 130 km/h, tant’è che superiamo abbastanza brillantemente Adana puntando decisi direttamente verso il mare fino ad arrivare, stanchi ma soddisfatti, in un favoloso campeggio sul mare appena dopo Silifke gestito da un vecchio pirata con una risata cinematografica.
Daniela per farsi benvolere si mette a contare da uno a dieci in kurdo, e mentre il pirata la fulmina bloccandola a metà tra il 4 e il 5 dicendole che quella è Turchia e non Kurdistan, l’occhio mi va su un quotidiano locale aperto su un tavolo proprio alla pagina dove campeggiano i volti di tre giovanissimi soldati turchi appena ammazzati dal PKK…
il Moro ed io ripariamo alla “gaffe” ingurgitando in un sorso e senza battere ciglio, mezzo litro a testa di riappacificatore raki caldo offerto dalla casa e sorbendoci una pallosissima partita di calcio tra Galatasaray (della quale il pirata è tifosissimo) e Kayseri.
Il posto è veramente bello ed impongo alla baldanzosa truppa, che vorrebbe fare un solo giorno di riposo, uno stop di almeno un paio di notti in un accogliente bungalow per provvedere ad un lavaggio dei panni, con conseguente stesa fatta finalmente alla maniera tradizionale, grigliate di pesce, bagnetti rigeneranti e pennichelle varie.
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