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Esfahan – Pasargade – Shiraz

19 agosto
Ci svegliamo presto. Vogliamo provare ad entrare di soppiatto in moto nella piazza per fare qualche foto impostaci dagli “sponsors” quando ancora Esfahan sonnecchia.
Il problema è che qui alle nove di mattina sonnecchiano un po’ tutti compreso il cuoco dell’albergo e non possiamo assolutamente rinunciare alle cipolle, alle uova, ai cetrioli e ai pomodori della colazione iraniana… ormai abbiamo le nostre abitudini e se non inzuppiamo le olive nel tè non carburiamo e ci gira la testa tutto il giorno. Imbocchiamo nella piazza in perfetta configurazione da viaggio, facciamo le foto aspettandoci da un momento all’altro una raffica di kalashnikov che ci seghi in due, e ripartiamo in direzione Shiraz tra lo stupore dei pochi pedoni insonnoliti.
a spasso per le strade di Esfahan
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Altre montagne bruciate dal sole, altri panorami, si comincia ad intuire la vastità di questa nazione. Non so quanti km abbiamo fatto fino a qui ma l’importante è “spezzare il fiato” e ormai ci possiamo pure addormentare sulla moto o inserire il pilota automatico.
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In mezzo al nulla ci sorpassa una macchina, capisco dallo sguardo serio e concentrato del conducente e dalla puzza di bruciato che emana dallo scappamento che per farlo ha spremuto veramente tutto quello che il motore poteva dargli…

Si sbracciano e fanno inequivocabili cenni di fermarci. Ci fermiamo. Scendono dalla macchina con già in mano dei bicchieri di tè fumanti. Comunichiamo attraverso i soliti sorrisi e i soliti gesti, comuni alla brava gente di tutto il mondo, e sembra di capirsi come se ci si conoscesse da tempo, senza barriere linguistiche e culturali.
Si fermano altre persone che stando in mezzo a un deserto, ancora oggi non ho capito da dove siano uscite.

A Daniela mettono subito in braccio un bimbetto (non sarà l’unica volta durante il viaggio) e questo credo che per loro sia la dimostrazione massima di amicizia e fiducia.
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Vanno alla macchina e ritornano con le mani piene di pesche. Facciamo fatica a trovare spazio nelle borse della moto per tutto questa frutta che ci stanno regalando.
Ci salutiamo con abbracci, baci e l’invito ad andarli a trovare a casa loro a Shiraz. Ripartiamo. Fa caldo ma c’ho un leggero brivido lungo la spina dorsale, i peli delle braccia dritti e un fastidioso appannamento alla vista.
Il nostro prossimo obiettivo è la Piana di Pasargade quella che fu la capitale dell’impero achemenide a partire dal 550 a.C. circa e dove nel bel mezzo spicca la Tomba di Ciro il Grande.
Il monolite si staglia bianco e solitario su una pianura piatta e immensa, spazzata da piccoli tornado di sabbia.

Un’incisione sulla pietra all’interno della tomba pare che recitasse:
“Passeggero, io sono Ciro. Ho dato l”impero ai Persiani e ho regnato sull”Asia. Non invidiarmi dunque questa tomba”.
Si narra sia stata proprio questa semplice frase a trattenere la furia di Alessandro Magno deciso a distruggere tutte le vestigia dell’impero persiano.
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Siamo gli unici stranieri, ci togliamo giacche e caschi e gironzoliamo solitari in moto per il sito archeologico cantando a squarciagola “Vacanze romane”.
E’ bello accorgersi di come, al raggiungimento di determinate mete, sognate da mesi ed evocate quasi come luoghi magici, tutta la fatica, i dubbi e i timori scompaiano, lasciando il posto ad una gioia infantile e contagiosa. Siamo a 1.900 metri di altezza ma fa un caldo che la metà basta.
Ci fermiamo nei pressi del sito e da veri turisti imbocchiamo nel cortile di un ristorante “ufficiale”.
Stiamo parcheggiando le moto cercando di metterle il più possibile all’ombra, quando ci si avvicina un ragazzo che in uno stentato e curioso italiano comincia a parlarci…
Insomma, per essere un iraniano lo parla abbastanza bene!

E te credo! Dopo dieci minuti di difficile conversazione riusciamo a capire che è italiano, originario di Cellino San Marco, il paese di Al Bano!
Si chiama Luciano, è simpaticissimo, è emigrato in Germania con la sua famiglia che aveva due anni, lavora in una vetreria, si è sposato una ragazza iraniana conosciuta lì ed è in Iran in vacanza insieme ad altri amici iraniani e tedeschi. Facciamo il solito casino italico lasciando stupiti e divertiti iraniani e tedeschi e ci promettiamo, come si fa sempre in maniera ottimistica in queste situazioni, di rivederci appena possibile.
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Un po’ distratto dall’allegro incontro con Luciano e company, vado in bagno e entro in quello femminile…

prima ancora che le donne dentro riescano a realizzare la presenza di un barbaro sporco e sudato nel loro bagno sono già schizzato fuori.
Sveglia Fabri’: bay = uomini…bayan = DONNE!!!!
Ci strafoghiamo al ristorante poi satolli e rinfrancati inforchiamo le Africa: destinazione Shiraz, città di poeti e di artisti e punto più lontano del nostro viaggio. Ci tuffiamo come pescecani famelici nel traffico di Shiraz. Ormai c’abbiamo una certa confidenza con il caos delle città mediorientali e i “vaffa” e i “limortaccivostra” lasciano il posto a sguardi di sfida e guida aggressiva tra dissuasori alti mezzo metro e tombini scoperchiati.
Albergo abbastanza fico con extra bed (che si rivelerà un materasso buttato per terra davanti al bagno che per andarci bisognerà scavalcarlo), bucato steso sul filo dei panni appeso tra lampadario e chiave dell’armadio e via di nuovo per strada a passeggio. Sulla piazza centrale di Shiraz mentre Luigi e Daniela vengono accalappiati da un iraniano che gli comincia a parlare di tutto, compreso il sistema giudiziario iraniano (fa piacere sentire che se in Iran ti beccano con una pistola anche scarica ti danno seduta stante sette anni di galera che, fatte le dovute proporzioni, dovrebbero equivalere immagino a circa una settantina passati nelle nostre prigioni), io mi butto in mezzo ad una partitella di pallone cominciando a riprendere confidenza con la sfera… cosa che mi tornerà utilissima nei giorni successivi.
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Un po’ sudaticcio e dopo aver fatto delle foto notturne al castello di Shiraz con la sua famosa torre pendente che manco gli esperti pisani sono riusciti a consolidare, seguo un po’ rintronato Luigi e Daniela che si riavviano verso l’albergo.
Domani è il grande giorno. Domani assaltiamo Persepoli.

Persepoli

20 agosto
ALL’ALBA! ALL’ALBA!!!!!
I due esaltati che viaggiano con me vogliono alzarsi prima che sorga il sole e coprire i circa 60 km che separano Shiraz da Persepoli per cogliere il sorgere del sole tra le rovine di quella che fu la capitale dell’impero persiano di Dario e Serse. Per fortuna ci avvertono che il sito apre sì all’alba, ma all’alba iraniana che è intorno alle 9. Meno male va, posso dormire un po’ di più.

Addì 20 Agosto dell’anno del Signore 2008, ore 08,00 (le 05,30 in Italia). Sul filo dei 110 km orari due moto avanzano baldanzose verso Persepoli.

Parcheggiamo all’inizio di un viale immenso lastricato in marmo che porta all’entrata principale del sito. Soliti salamelecchi con il parcheggiatore, biglietti pagati, formulario compilato (che bello leggere tutte le nazionalità dei turisti che lo hanno compilato prima di noi: Canada, Spagna, Rep. Ceca, Giappone, Nuova Zelanda….
e poi scriviamo “Daniela, Luigi, Fabrizio, nazionalità: Italia”.

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Borracce d’acqua riempite con la solita pozione magica che magari non serve a niente ma fa tanto “adventure”, cappelli, occhiali da sole e crema solare fattore 50. Ci apprestiamo ad entrare in Persepoli, accarezzando le stesse colonne di quella che fu una delle capitali più famose e splendenti dell’antichità e calpestando la stessa polvere calcata 2300 anni fa dalle falangi macedoni che la incendiarono e ridussero in rovina.

Mi chino e raccolgo una manciata di questa terra carica di Storia per riportarla a casa.

Passiamo a bocca aperta attraverso l’imponente Porta delle Nazioni dopo essere saliti lungo le scalinate ai lati delle mura ciclopiche. Le scale erano studiate in modo tale che con i loro bassi e ampi gradini non intralciassero l’elegante e solenne incedere dei dignitari di corte. Dalla collina sovrastante si può godere della vista d’insieme della residenza imperiale con la possibilità di coglierne la maestosità tanto da far esclamare a Moroboschi: “Versailles era lo sgabuzzino di Persepoli!”

da e luigi persepolis

sgabuzzino

Tutto era stato costruito in funzione di impressionare visitatori e dignitari stranieri esaltando la gloria dei re persiani con spazi enormi, colonne altissime e marmi neri. La cosa straordinaria è come, nonostante distruzioni, saccheggi e il passare del tempo, mantenga ancora oggi questo fascino fiero e solenne.

Fraternizziamo, come ormai ci capita ovunque e in qualsiasi situazione, con gli iraniani in visita al sito: loro fotografano noi, noi fotografiamo loro e poi ci fotografiamo tutti insieme.

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Stremati dal gran caldo arranchiamo verso le moto per dirigerci su Naqsh-e Rostam, il sito dove sono sepolti quattro re della dinastia Achemenide. Il sito si trova a circa tre km da Persepoli ma ci perdiamo ignobilmente e ne facciamo almeno trenta prima di recuperare la giusta rotta. Sarà per il gran caldo o forse per l’arsura unita ad un ingiustificato ottimismo che mi affaccio nel gabbiotto del guardiano e con un affabile sorriso chiedo, cercando di superare il frastuono della radio, del televisore e del condizionatore accesi, se è possibile entrare e parcheggiare le moto sotto le tombe. Il guardiano lascia il pranzo, spegne radio, tv e condizionatore, si fa ripetere la domanda sicuro di non aver capito bene, poi mi guarda come se fossi uno squilibrato e mi dice con dolcezza: “E’ vietato”.

Saliamo a piedi. Lo spettacolo nella sua selvaggia maestosità è semplicemente superbo. Le quattro tombe scavate nella parete rocciosa a diversi metri dal suolo vengono attribuite a Dario I, Artaserse I, Serse I e Dario II.

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Torniamo spensierati verso Shiraz. Talmente spensierati che su nastri d’asfalto deserti superiamo abbondantemente i limiti di velocità. Ci ferma la polizia munita di tele-laser. Chiedono i passaporti ma li abbiamo lasciati in albergo a Shiraz…ci chiedono se siamo inglesi, poi tedeschi poi francesi….siamo italiani….italiani? CAMPIONI DEL MONDO!!!! Moroboschi snocciola tutte le formazioni dell’Italia dal 1934 ad oggi e ci mette sempre in mezzo Francesco Totti…FUNZIONA! OK! Ciao-ciao e andate piano.

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Arriviamo a Shiraz e la attraversiamo tutta per andare a visitare le famose Torri del Silenzio, delle basse colline dove sulla sommità i seguaci dello zoroastrismo esponevano i corpi dei defunti. Pare che a quel punto i corvi ne decidessero la rettitudine, e di conseguenza il loro destino ultraterreno, beccando per primo l’occhio sinistro o l’occhio destro. Osserviamo dal basso in alto le collinette desolate e arse dal sole implacabile del primo pomeriggio iraniano e desistiamo dall’arrampicata che potrebbe rivelarsi fatale anche senza corvi. Riguadagniamo l’albergo e la meritata prima pennichella pomeridiana della vacanza.

Dopo tanti tentennamenti tiriamo finalmente fuori le magliette con il simbolo iraniano di “Allah” stampato dietro. Non siamo molto sicuri dell’accoglienza che riceveranno queste magliette e, principalmente, noi che le indossiamo. Prima della partenza, a magliette già stampate, ci sono stati pareri contrastanti in uno spettro che andava dal “Vi useranno come scudi umani nelle centrali atomiche” al “Vi fucileranno sul posto, contro un muro con l’effige di Khomeini”.

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Quindi é con un po’ di timore che portiamo fuori le nostre magliette a passeggio nella calda serata di Shiraz ma ormai a Persepolis siamo andati e succeda quel che succeda.

Di fronte al primo che mi dovesse chiedere conto e ragione di questo simbolo islamico indossato da un infedele, sono pronto a gettarmi in ginocchio e a chiedere perdono.
E puntualmente accade: mi ferma uno in mezzo al marciapiede e mi chiede se sono musulmano visto che indosso un simbolo islamico.
Momento di tensione….“Ecco”, penso, “qui a Shiraz si conclude non solo la mia vacanza in Iran, ma la mia stessa esistenza terrena….”

“No” gli rispondo secco sperando intimamente di chiudere lì la discussione.
“Sei protestante?”
insiste….
“No”
gli rispondo di nuovo sempre più preoccupato…
“Sei allora Zoroastriano?”

Eh????ZOROASTRIANO???? Di nuovo scandisco un sempre più flebile “..no..” mentre comincio a fare il conto alla rovescia che porta alla mia inevitabile morte.
Attimi di gelo…
“ARE YOU…CATHOLIC?”….

“…yeeee……yeeee…..yes…”
mi esce tremolante dalle labbra già secche e con il sapore della paura appiccicato sopra.
“Oh, you are catholic.”

E lo ripete ad altri nel frattempo convenuti per assistere a quello che io credo sia un processo pubblico in piazza con successivo linciaggio.
Sto già porgendo i polsi per le manette quando quello mi saluta cordialmente, mi fa gli auguri per una buona permanenza in Iran, si gira e se ne va.

Mentre lentamente mi ricomincia a scorrere il sangue nelle vene, mi accorgo che in una macelleria c’è appeso un quadro raffigurante la madonna con il bambino e capisco a che livello sia arrivato il lavaggio del cervello che ci fanno quotidianamente a casa nostra.

Proseguiamo tranquillamente verso il centro mentre non smetto di rimuginare anche con un leggero disappunto sul fatto di ritrovarmi in classifica, e nonostante tutti gli sforzi fatti, addirittura dopo gli zoroastriani dei quali, con tutto il rispetto, a male pena ne supponevo l’esistenza.

Arriviamo alla moschea del Venerdì nel momento migliore. Il posto è deserto e silenziosissimo. La luce del tramonto che filtra attraverso le vetrate regala un’atmosfera fiabesca e contemplativa. Fuori un simpatico vecchietto ci spiega la presenza su tutti i muri della moschea di tanti mattoni in legno. Si mette a traballare accompagnando il movimento con un suono cupo dalla bocca. Finalmente capiamo! Quei mattoni in legno sparsi nella struttura servono da “ammortizzatori” durante i terremoti. La moschea è del 1281, l’Iran è un Paese fortemente sismico, la moschea è ancora perfettamente in piedi, quindi i mattoni di legno hanno funzionato!

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Per cena decidiamo di seguire il consiglio della Lonely Planet e andiamo a mangiare al ristornate Ali Baba che si rivelerà uno dei peggiori posti nei quali abbiamo mangiato con in più la pretesa del “ristorantone”. La famosa guida continua a rivelarsi, almeno nei consigli per mangiare e dormire, e per quanto riguarda la nostra esperienza, una vera bufala.
Attraversiamo il viale rischiando di morire almeno un centinaio di volte e ci lanciamo a pesce sul sospirato materasso.

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Shiraz

21 agosto
Avrebbe dovuto essere una giornata di riposo, invece si rivelerà una giornata campale.
Solita “colazioncina” leggera e si esce belli pimpanti alla ricerca della chiesa cattolica di Shiraz. Non facciamo nemmeno troppa fatica a trovarla con tutte le indicazioni che ci danno. In mezzo a basse palazzine si staglia la cupola con un’inconfondibile croce cristiana sopra.

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Suoniamo al cancello principale, bussiamo, chiamiamo a voce, cerchiamo di sbirciare dentro attraverso il buco della serratura. Le proviamo tutte. Niente.
Facciamo il giro e chiediamo a dei soldati poco lontani se è quella l’entrata. Ce lo confermano.

Lungo il muro c’è pure un’altra porticina in ferro ma un inequivocabile cartello in inglese e in farsi, lascia intendere che chi ci abita si è scocciato di tutte le scampanellate dei turisti in cerca dell’entrata.
Un po’ sconsolati ce ne torniamo da dove siamo venuti.

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Improvvisamente Daniela smette di parlare. Luigi ed io al momento non ci accorgiamo di niente poi la situazione comincia a precipitare: Daniela ci dice di non sentirsi bene, ha bisogno d’acqua, comincia a gonfiarsi come una palla e respira a fatica.

Affrettiamo il passo per raggiungere al più presto l’albergo, fortunatamente non troppo lontano, dove teniamo le iniezioni di cortisone.
Capisco dall’espressione di Daniela e dalle sue poche parole che la situazione è abbastanza grave e sta precipitando: ha un fortissimo attacco allergico.
Ci precipitiamo in stanza e mentre Luigi comincia a tirare fuori le carte per attivare la copertura sanitaria che abbiamo stipulato, io faccio l’iniezione di cortisone preparandomi a quella successiva di adrenalina caso mai dovesse servire.

Mandiamo anche un centinaio di sms allertando tutti gli amici disponibili a Roma e facendoli preoccupare abbastanza, perché non riusciamo a metterci in contatto con un medico in Italia.

Daniela si mette a letto. Sta veramente male e ha il volto gonfio e deformato.
Luigi ha l’obbligo, nonostante il momento drammatico, di documentare l’evento e scatta una foto da mettere eventualmente sulla lapide.

Cerchiamo di mantenere la calma e lei, nonostante tutto, a gesti, ci tranquillizza, ma sembra un castoro obeso. Dopo circa un’ora e mezza passata lì a guardarla, il cortisone comincia a fare effetto e dopo due ore si rialza barcollante dal letto, si rimette il camicione azzurro con il fioccone bianco in testa e un po’ stordita ci dice che possiamo proseguire per un giro nel bazar. Che donn… che Uomo!

Gironzoliamo nel mercato e ci scontriamo con Luciano! Abbracci, baci, pacche sulle spalle, intervengono pure gli iraniani e non ci si capisce più niente. Al solito i parenti di Luciano ci danno l’indirizzo di Teheran invitandoci ad andare a trovarli e a considerarci loro ospiti.

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Siamo nel cuore dell’antico bazar di Shiraz alle prese con spezie, lampade di Aladino, teiere made in Cina e stoffe che i mercanti si affrettano a dichiarare con orgoglio essere state prodotte in…Vietnam. Tutta roba che, sono sicuro, non compreremo mai!

Siamo proprio all’incrocio tra vari tunnel del bazar: da una parte si dirama il settore degli ori e delle pietre preziose, dall’altra quello delle spezie, di là ci sono i tessuti, più su i calzolai e i conciatori. Insomma, stiamo proprio in mezzo.
Approfitto di ogni gradino o sediolina libera fuori dalle botteghe per riposarmi senza però perdere d’occhio Moroboschi che c’ha un senso dell’orientamento strepitoso. Fosse per me mi perderei e mi ritroverebbero nel 2030.

Continuiamo il giro per lo shopping fino a quando una bambina ferma Daniela.
Si intuisce che è stata mandata in avanscoperta, insieme al fratellino più piccolo, dai genitori che se ne stanno un po’ in disparte in attesa dell’evolversi della situazione. Poi appena capiscono che non c’abbiamo fretta e che Daniela è “partita” con la conversazione, si avvicinano tutti.

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Ormai siamo smaliziati e capiamo che pure ‘sta volta sarà durissima uscire indenni dallo scontro tra le due culture contrapposte.
E chiacchiera con il padre, poi con lo zio, poi con l’amico dello zio, poi con il nonno…ah, no, il nonno non è il loro, è uno che si è avvicinato solo per curiosare…aspettate, vi presento mio cognato e poi il cugino dell’amico dello zio.

Io già mi perdo con le parentele mie in Italia, figuriamoci con quelle degli iraniani…. mi gira la testa, non ci sto capendo più una mazza e mi allontano di qualche metro per fare le foto. Non lo avessi mai fatto!!! Tutti a fare foto, pure la gente che passa lì per caso.

Ad un certo punto scoppia pure un mezzo casino: lì vicino béccano un ladro che s’è fregato qualcosa in una bottega…il padrone lo insegue brandendo un coltellaccio, Cavolo!!! Mentre cerco di mettere il rullino nella reflex mi tremano le mani, sto per fare la foto del secolo… il premio Pulitzer…invece gli spruzzano in faccia solo un irritante, gli danno un calcio in culo e lo mandano via…;
nonostante il bordello, lì, nel nostro piccolo incrocio, avvolti dai profumi e dai colori del bazar, la conversazione non si è interrotta e ha continuato a fluire piacevole e serafica.

Poi due donne del gruppo cominciano a confabulare e rovistano in una sporta della spesa.
Tirano fuori un centro tavola e lo regalano a Daniela. Colta un po’ alla sprovvista la piagnona comincia a versare lacrime di commozione ed è come se si fosse frantumata a terra un’ampolla contenete un virus contagioso…cerco di resistere virilmente ma poi quando vedo che Moroboschi e gli omaccioni iraniani con i baffoni c’hanno pure loro gli occhi lucidi, mi unisco al gruppo e mi metto, per simpatia, a piagnucolare pure io.

Ci salutiamo e ci rintaniamo in una freschissima sala da tè. Sorpresa! Ci sono quelli di Milano incontrati sul traghetto!
Tra tè aromatici e pasticcini deliziosi ci scambiamo le rispettive visioni dell’Iran e i consigli su cosa vedere e le strade da fare.
Rinfrancati dalla merenda proseguiamo l’avventura nei meandri luccicanti del bazar.

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L’unico uomo in grado di ingrassare in Iran è Moroboschi che alla disperata ricerca di una nuova cinta, se ne fa confezionare una espressa da un conciatore del bazar.
La cinta muggisce ancora quando gli viene consegnata e la puzza di bestia in cancrena ci perseguiterà per i successivi 6.000 km. nonostante svariati tentativi per sopprimere definitivamente lei e il suo incauto acquirente.

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Ci infiltriamo nel dedalo di strade che si diramano intorno al bazar e lasciamo che ci prendano per due idioti che camminano rasenti i muri con in mano immaginarie pistole.

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A quattro zampe ritorniamo verso l’albergo e, per evitare ulteriori attacchi allergici da ristornate, ci rifugiamo nello sgangheratissimo kebbabaro “sporco approved” proprio sotto all’albergo.

Shiraz – Yazd (442 km)

22 agosto
E’ mattina presto per gli standard locali, quando ci piazziamo impazienti con armi e bagagli davanti al garage aspettando che apra, con comodo, per riprendere le Africa.

Diamo di che parlare ai passanti inscenando lo spettacolino dei vari controlli, veri e fittizi, alle moto e caricandole sempre di più. Adesso sopra, oltre ai soliti bagagli, ci sono pure, curiosamente, le spezie, le stoffe vietnamite, le teiere di latta made in Cina e una FAVOLOSA lampada di Aladino che da sola peserà otto kg.

Siamo pronti a partire per Yazd, l’antica città carovaniera posta sulla via della seta visitata anche da Marco Polo nel 1272.
Attraversiamo l’altopiano iranico diretti verso le propaggini meridionali del Dasht-e Lut, uno dei deserti centrali insieme al Dasht-e Kevir, posto più a nord, con temperature che superano i 45° nonostante gli oltre 1.200 metri di altitudine.

La guida, lungo le centinaia di km di queste quasi deserte strade iraniane che attraversano il nulla assoluto, è piacevole e rilassante, intervallata da pochi ma gioiosi incontri con pullman di linea, camionisti che ci salutano con i caratteristici fischi, rari automobilisti e decine di caravanserragli abbandonati.

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Dopo decine e decine di km di infruttuosa ricerca, finalmente individuiamo una solitaria macchia verde. Ci fermiamo per mettere qualcosa sotto i denti prima di proseguire per Yazd.

Inconsapevolmente ci apprestiamo a toccare il punto più basso e infimo dell’intero viaggio in Iran, ma fortunatamente precederà solo di poche ore il punto più alto.
Quei radi alberi e cespugli rinsecchiti crescono ai margini di un canale di scolo ma, essendo l’unico punto con un po’ d’ombra nel raggio di un centinaio di km., è discretamente affollato e sporco.
Nugoli di api inferocite si scagliano contro tutto ciò sia minimamente commestibile e perciò aprire e mangiare delle scatolette, per di più seduti per terra in mezzo alla polvere e ai rifiuti, diventa un esercizio di pura sopravvivenza.

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Ripartiamo consapevoli di aver alzato, e di molto, la nostra concezione sullo spirito di adattamento.

Entriamo a Yazd poco dopo l’ora di pranzo. Sento rivoli di sudore colare dentro gli stivali. Il casco non lo sopporto più, gli occhiali mi danno fastidio e c’ho sete. Faccio un cenno al Moro e ci buttiamo all’ombra di un muro di fango e paglia cercando di fare il punto della situazione e schiarirci un po’ le idee ormai abbondantemente annebbiate dalla calura e dalla stanchezza. Si ferma una macchina e ci offrono dei semi da sgranocchiare. Ne prendiamo una manciatina a testa, ma insistono e ci riempiono le tasche.

Non appena ripartiti ci si affianca un’altra macchina. Il guidatore ci chiede se abbiamo bisogno di un albergo; in condizioni diverse forse avremmo declinato l’invito ma ormai in preda alle allucinazioni decidiamo di fidarci e di seguirlo all’interno degli stretti ed intricati vicoli di Yazd.

Il posto si presta perfettamente ad un agguato ma sordi alle proteste di Daniela proseguiamo veloci dietro la macchina che, dopo non so quante svolte all’interno di quel labirinto di paglia e fango, inchioda in una piazzetta proprio di fronte all’albergo più bello e affascinante visto in vita mia.
Ci accolgono in maniera splendida offrendoci una stanza strepitosa a 1.000 Rial. L’albergo è nuovo, curatissimo, con piante, fiori e fontane interne ed è inserito in una cornice, il centro storico di Yazd, da lasciare senza fiato. (Fahadan Great Hotel http://www.mehrhotel.ir/index.php)

La trattativa la conduciamo in maniera abile e smaliziata tanto da riuscire, alla fine, a strappare il prezzo di 500 Rial (35 euro in tre, compresa prima colazione).
Lavati e cambiati usciamo e ci incamminiamo per il centro deserto di Yazd, apprezzandone immediatamente la frescura dei sui stretti vicoli e la sua estrema tranquillità.

Entriamo in un negozietto e, insieme al proprietario imbarazzatissimo per la vittoria di un iraniano contro un italiano alla finale oro per il taekwondo, assistiamo alla premiazione olimpica. Poi usciamo per dirigerci verso le Prigioni di Alessandro. Chiediamo indicazioni all’unico passante che ci porta fino all’entrata del “museo”, e, prima che riusciamo a bloccarlo, ci paga i biglietti, ci saluta, e se ne va.

Gironzoliamo solitari nelle viuzze di questa suggestiva città, patrimonio dell’umanità, costruita quasi interamente con l’argilla e con, sui tetti, delle particolari torri che catturano il vento e lo indirizzano all’interno delle case per rendere più sopportabile il torrido caldo delle estati iraniane.

Visitiamo la moschea del Jameh che con i suoi due altissimi minareti blu di quasi 50 metri che si stagliano superbi in un netto contrasto di colori nell’omogeneo color ocra del resto della città, offre scorci indimenticabili.

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Saliamo sull’Amir Chakhmagh per godere del panorama di Yazd distesa ai nostri piedi con la palla rossa del sole che scende tra le rocce e le sabbie del Dasht-e Lut tremolanti all’orizzonte.
Scendiamo dal complesso Amir Chakhmagh che il sole è appena tramontato e nella piazza s’accendono le luci. Della gente è intenta a seguire una partitella di calcio improvvisata nella piazza da un gruppo di ragazzini.

Ci avviciniamo e ci mettiamo ad osservare:
Per la barba del profeta!!!! Ma questi non conoscono le più elementari nozioni tattiche!!!
Difese inesistenti, portieri volanti lasciati a se stessi, corrono come pazzi e alcuni c’hanno pure un bel tocco ma vanno tutti appresso al pallone e non lo passano mai.
Io e il Moroboschi fremiamo.
Cerchiamo di fargli capire che vorremmo partecipare alla partita uno per squadra. Alcuni sembrerebbero accettare, altri, vedendoci un po’ vecchi, ci scacciano in malo modo.
Alla fine prevale la “sentenza Bosman” e ci schieriamo uno per parte: io in difesa nella squadra che attacca dalla piazza verso Amir Chakhmagh e il Moroboschi a centrocampo in quella opposta.

I miei nuovi compagni di squadra si presentano ognuno toccandosi il petto:
Alì, Mohammed, Reza, Mohammed II, Alì IV e il cugino Mohammed VII
.
Non c’ho capito niente ma speriamo bene. Immagino che a Moroboschi non sia andata meglio dall’altra parte.
Comunque si comincia. Zero a zero e palla al centro.
Terreno (di marmo) in discrete condizioni, spettatori una trentina circa, temperatura sui 35° e si gioca a piedi nudi.
Anche loro si accorgono presto della differenza! Se prima facevano un gol ogni tre secondi, adesso dopo dieci minuti di aspra battaglia siamo ancora a reti inviolate.
Gli urli miei e del Moroboschi fanno rispettare le consegne tattiche, le difese difendono e gli attacchi attaccano e ci si randella abbastanza.

Poi purtroppo faccio un’apertura a quello che credo sia il mio terzino sinistro Mohammed, invece è uno che gli assomiglia in maniera impressionante ma che gioca con Moroboschi.
A questo non gli pare vero, s’invola verso il mio portiere e lo batte con un preciso diagonale. 1 a 0 per la squadra di Moroboschi che esulta e si abbraccia con i suoi compagni mentre i miei mi guardano come se gli avessi ammazzato un parente.

Dobbiamo assolutamente pareggiare e lì chiudiamo nella loro metà campo. Ma ad un certo punto una palla respinta dalla difesa trova uno splendido stop del Moroboschi che controlla e parte in contropiede!
Quello che accade immediatamente dopo non potrà mai essere chiarito:
secondo me lui è scivolato da solo, secondo lui io gli ho fatto un fallaccio da ultimo uomo. Fatto sta che con Moroboschi dolorante e a mezzo servizio, riprendiamo l’iniziativa a centrocampo ed in una azione convulsa riusciamo a pareggiare.

Sul risultato di 1 a 1 che accontenta un po’ tutti, dichiariamo finita la partita anche perché senza allenamento a 1.230 metri di altezza c’abbiamo le lingue penzoloni che leccano già il marciapiede.
I ragazzini tentano in tutti i modi di farci continuare ma alla fine si rendono conto che siamo alla frutta.
Facciamo le foto ufficiali:

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……e ci incamminiamo verso il nostro meraviglioso e meritato albergo.

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