Seconda Puntata: Lago Son Kul, Naryn, Tash Rabat.
Lago Son Kul – Naryn
Ma buooooongiorno Sole!
Dalle innumerevoli fessure da cui durante la notte sono entrati taglienti spifferi gelati, ora piccoli raggi di sole trafiggono il soffitto della yurta illuminando coni di polvere.
Mi stropiccio gli occhi che sono contento e pian pianino apro la zip del mio sacco a pelo cercando di non far rumore per non svegliare gli altri miei compagni di viaggio. Ma il ronfo tonfo di Cristiano è così denso da rendere inutile il tutto, questi non si sveglierebbero nemmeno se in tenda entrassi sgasando volgarmente con una Ktm Exv Dakar Rally 450 smarmittata.
Esco dalla yurta e per la prima volta da quando siamo partiti mi rassereno lasciandomi scaldare il viso dai primi raggi di sole che qui su a 3000 metri e dopo giorni di pioggia sono di un piacevole indescrivibile.
Faccio due passi e mi gusto il risveglio del nostro Campeggio di Yurte. C’è la signora che ci ha dato alloggio che prepara la colazione (in pratica una variante della cena di ieri: pane e marmellata e al posto della vodka c’è il the). C’è chi ritorna dal pascolo con il branco di cavalli, e poi un bambino che galoppa facendo sbattere rumorosamente gli zoccoli del suo cavallo; lo vedo, gli dico di andare vicino la yurta dove stanno dormendo i miei e con il polso gli faccio segno di “apri il gas, fai più rumore!” … ma nulla … una ronfata di Cristiano fa scappare il cavallo imbizzarrito.
Dopo una pausa nelle toilette sapientemente posizionate lontano dal campo, ritorno e metto su un caffè. Sarà stato il suono del caffè appena uscito o il suo aroma, sta di fatto che i dormiglioni si svegliano all’istante.
“Ahhh Finalmente il sole!” escalma la ciurma… “ed è già pronto il caffè!”
Dopo colazione e dopo le foto di rito dei ragazzini sulle nostre moto, facciamo un piccolo briefing per dare un senso alla giornata.
Decidiamo di circumnavigare il lago Song-Kul dal versante Nord e poi scendere a Sud-Est per riprendere la strada per Naryn.
Nonostante si erano presentati dei dubbi sulla fattibilità della strada scelta, perchè più vicina alla sponda del lago e quindi più esposta all’erosione dell’acqua e con elevata probabilità di incappare in guadi e pozzangheroni, alla fine si parte lo stesso.
Nella serie infinita di guadi che affronteremo in queste prima metà giornata c’è da segnalare:
– Cristiano vigliaccamente ha saltato un torrente aggirando il corso d’acqua dopo suggerimenti di alcuni locals prontamente accorsi in nostro aiuto. (Gliela faremo pagare cara con abbondanti prese per il culo)
– Un back-flip dell’Afgano su erba viscida e infame.
– Una doppia caduta di Riccardo.
– Una caduta di Nonno Peppe.
E io per non annoiarmi scelgo di attraversare un prato misto-merda di liquami di vacca e fango.
Prendiamo la sterrata che arriva poco prima di Kara-Unkur e non appena svalichiamo ci si apre davanti uno dei tanti paradisi di ogni endurista: mille curve di fango e terra che scendono a budello verso il fondo valle. Godiamo come ricci a guardare giù il panorama. E qui che pensiamo che esiste davvero un Dio Motociclista che nel regalarci cotanta bellezza sa essere buono, ma altrettanto paraculo quando inizia a far piovere non appena iniziamo a scendere!
Pensando che fosse solo una pioggia passeggera evitiamo di indossare gli impermeabili. Arriviamo giù lerci di fango e zuppi d’acqua che non riusciamo a parlare e balbettiamo dal freddo. Decidiamo di prendere l’asfalto per Naryn e arrivare in città il prima possibile per trovare un posto caldo.
Una sessantina di kilometri di inferno. Strada dissestata, asfalto bagnato, camion che sfrecciano alzando nuvoloni di acqua sporca, visiere appannate e noi a morire di freddo fradici come pulcini.
Naryn non offre gran che. Ci fermiamo al primo albergo che troviamo, abbastanza tetro: un casermone del tardo medioevo sovietico decadente che puzza di moquette umida, location perfetta per il sequel splatter di Shining.
Mentre contrattiamo il prezzo Andrea e Cristiano vanno in cerca di altro. Dopo un’oretta ritornano con una buona notizia:
“Abbiamo trovato un altro albergo, è uguale a questo, però ha il ristorante con pollo allo spiedo, birre e vodka proprio lì vicino”.
In un nanosecondo rimontiamo in sella e li seguiamo.
Recuperate le forze dopo una doccia calda, ci spalmiamo sulle panche del ristorante e prima a birre e poi a vodka ci lanciamo tumefare i volti dall’alcol.
Naryn – Tash Rabat
Ho il cranio che mi pulsa, mi fa male la testa, sento delle crepe che mi lacerano la corteccia cerebrale. Odio, odio e ancora odio puro verso i miei compagni di viaggio: schiavi del vizio che non si sanno gestire. Maledetti!
Anche gli altri non stanno messi bene, ieri abbiamo proprio esagerato. Passiamo tutta la mattina a girare tipo zombi tra i corridoi e le scale dell’albergo, ci parliamo emettendo versi e rantoli. Non so per quale dannata ragione vado al mercato a comprare dei mirtilli rossi. Con Cristiano cerchiamo di metterli in una bottiglia, ma è più la poltiglia che cade sull’uscio dell’albergo che quella che entra nella bottiglia. I passanti si avvicinano increduli convinti che stessimo sgozzando un animale.
Riacquistato quel poco di equilibrio per stare in moto partiamo facendo tutto asfalto fino al bivio per Tash Rabat, il Caravanserraglio più alto sulla via della Seta.
La strada che arriva fino a Tash Rabat costeggia un piccolo torrente e si insinua tra le rocce rosse squarciando un tappeto verde soffice. Il cielo limpido a queste altezze rende ipersaturi e puri i colori del paesaggio.
Prendiamo due yurte vista caravanserraglio con inclusa colazione e cena.
L’Afgano se ne va a letto che non sta tanto bene e deve ancora smaltire la sbornia di ieri. Noi ci godiamo il sole assieme a turisti cinesi e kirghisi tutti vestiti a festa per visitare Tash Rabat. Il confine cinese è vicinissimo, qualche decina di kilometi.
Per gustarmi meglio il panorama mi arrampico sul crinale della montagna; mi seguono dei ragazzi kirghisi. Loro ridono e mi guardano arrancare. Ne nasce una specie di corsa folle a chi arriva prima in vetta. Ma giuro: a costo di farmi venire un infarto voglio piantare per primo la suola di una scarpa italiana in vetta. Loro salgono a zig-zag per smorzare la pendenza, io dritto come un mulo testardo. Li supero e mi avvio solitario alla vittoria con loro increduli. Arrivo in cima e stramazzo al suolo boccheggiando in modo convulso. Con l’ultimo anelito grido “Primooooo!”
Scendo che fa sera. La notte porta con se freddo, vento e un cielo stellato da incorniciare in una foto.
ammirato dalla bellezza e dai paesaggi, interrotti solo dal caos forsennato di certa foga endurista, attendo impaziente l’evolversi della storia. E con un certo sforzo tengo a freno l’immaginazione per non osare…al momento preferisco prendere tempo per assimilare l’immagine del Moro con il cappello da intillimano e le facce davanti alla collezione di bottiglie di Vodka…vuote.