02 Feb 49° Elefantentreffen
Giorno 2 da Solla
Roma, 2 febbraio 2005
Per il secondo giorno consecutivo mi risveglio nel letto di casa mia. Un soffice piumone blu mi ha scaldato per tutta la notte. Lenzuola profumate e pulite hanno accompagnato i miei sogni.
Apro gli occhi, cerco le ciabatte, mi alzo e accendo la radio. Poi in bagno per una doccia bollente. Una veloce colazione e poi, vestito di tutto punto, prendo la moto che è ancora ferma li da lunedi sera.
E’ sporca di sale, incrostata da duemila chilometri di neve e ghiaccio. Ha ancora la copertina e le manopole pelose delle Tucano. Vederla ma ha riacceso quei sensi e quei ricordi che sembravano ingoiati già dopo due giorni di ruotine. Mi accorgo di avere indosso la giacca da moto che, malgrado la lavatrice, puzza ancora. Ha ancora l’odore acre e selvatico del fuoco e della paglia, della strada ghiacciata e del bosco. Ho di nuovo indosso gli stivali neri. Macchiati di sale e unti di grasso. Mi ritornano in mente ricordi bellissimi, costruiti chilomtro dopo chilometro, minuto dopo minuto.
Ricordi di persone normali, ricche di quella banale umanità che fa avere paura, freddo sonno e fame. Normale umanità che ti fa incazzare e, che dopo un bicchiere, ti fa fare pace con gli altri e con te stesso.
Io sono nato in collina. Sono figlio di una terra dove il sole ti strozza; dove l’estate, il frinire delle cicale può diventare un rumore assordante.
Io, che ho visto la neve per la prima volta che avevo già la barba, mi sono svegliato alle 6.00 del mattino e ho trovato la Capitale ammantata di bianco. Neve nel parcheggi, neve sulla Colombo, neve sul raccordo. La neve ai bordi della strada ci ha fatto compagnia finchè non si è fatta sera a Bolzano. Poi il risveglio sottozoero.
L’arrivederci ad un letto comodo che avremmo rivisto dopo tre giorni. Ancora strada e freddo.
Viaggiare in moto, anche se accompagnati da persone speciali, è viaggiare soli con se stessi. Percorrere kilometri seguendo quella striscia nera d’asfalto, con il vento che fa da colonna sonora, ti lascia il tempo di pensare, di ricordare. Fai correre la mente, le fai attraversare le pianure del ricordo o le tortuose mulattiere dell’immaginazione.
Il vento che sbatte sulla visiera, che si intrufola dalla fessura che lasci aperta per non fare appannare tutto, impedisce che il ricordo ti rapisca del tutto e ti riporta a pedinare quella pallida scia bianca.
La tua fantasia si adagia su quel suono disarmonico come un pezzo jazz. Si fa trasportare veramente molto lontano. Pensi a persone lontane, a persone amate che non hai più. Pensi a cosa sarebbe potuto essere della tua vita se quel giorno avessi detto un no o un si. Cosa succederebbe se tu non tornassi a casa e scegliessi di continuare il tuo viaggio.
Poi il vento gelido irrompe ancora da quella stramaledetta fessura e ti riporta sulla strada. Controlli quanti kiometri hai percorso dall’ultima sosta o, per spezzare la monotonia, affianchi qualcuno, alzi la visiera e chiedi strillando: “quanti kilometri abbiamo fatto?”. Poi scopri che sono sempre troppo pochi e che c’è ancora un mare di strada da percorrere con questo cazzo di freddo che gela anche il respiro. Cominci a sentire la stanchezza nelle ossa. Hai la sensazione di avere un pugnale conficcato tra le scapole. Hai le ginocchia anchilosate. Le caviglie bloccate dentro cento paia di calzini. Cerchi di riattivare la circolazione muovendo i piedi dentro gli stivali e lottando con gli scaldini chimici. Ogni tanto ti strai sui bagagli per stendere la schiena e allungare le braccia. Anche il collo resta bloccato dal peso del casco e dal fagotto fatto di pile e foulard paravento. L’unico movimento laterale che puoi permetterti con la testa è di spostare lo sguardo verso gli specchietti per vedere chi arriva da dietro.
Di tanto in tanto incroci qualche altro matto scellerato che ha deciso di passare, come te, il fine settimana sotto zero. Con cordiale gesto di saluto alzi la gamba come fanno i cani suhli alberi. Di norma si dovrebbe salutare con classico gesto della mano, ma il solo pensiero di stanare la mano dalla manopola pelosa della Tucano, mi fa gelare il sangue nelle vene.
Intanto corre la strada ed è ora di fare l’ennesima sosta. Comincia il balletto dei sorpassi di chi vuole fermarsi. Cominciano a lampeggiare le frecce. Si scorge l’uscita per la stazione di servizio e rallentiamo. Scalare le marce diventa un’impresa titanica. La mano sinistra, anestetizzata dal freddo e dall’immobilità di due ore, non risponde e usare la frizione diventa impossibile. Anche la mano destra ha il suo bel da fare. Cosi l’ingresso al benzinaio somiglia più ad un’esibizione di Holer Togni che una sosta per fare benzina. Ma per fortuna si può frenare anche con i piedi e, finalmente, ci fermiamo. elefantentreffen
I primi tre minuti di sosta hanno un non so che di surreale. Ognuno cerca di comunicare qualcosa a qualcuno emettendo dei suoni che hanno dell’ancestale. Chi dovrebbe ascoltare è troppo stordito dal rumore del vento sul casco per capire qualunque cosa. E’ un continuo bestemmiare il freddo e la strada, e abbiamo in faccia il più deficiente dei sorrisi di soddisfazione che sembra dire: “fa un freddo asino ma ce la stiamo facendo; si, ce la stiamo facendo”. Se hai qualche timore di non farcela c’è questo maledettamente determinato insieme di deficienti che ti da la forza di tirare il fiato e ricominciare. E’ come se, chi ha più forza di te, te ne desse un pochino per superare la crisi ed andare avanti.
Cerchi di sgranchirti le gambe per quanto puoi, c’è chi fuma una sigaretta per tirare un attimo il fiato, chi mangia l’ennesimo cioccolattino e chi tira fuori dal fantomatico cilindro, il fantomatico coniglio che, questa volta, ha la forma di un termos con dentro il liquore al cioccolato fatto dalla nonna.
Adesso ancora kilometri. Vento e rumore, freddo e piedi gelati, sale sulla strada e paura di finire per terra. Finalmente comincia a concretizzarsi la meta di questo viaggio. Usciamo dall’autostrada e cominciamo a vagare per le campagne Bavaresi. Da un momento all’altro mi aspetto che da una di queste casette dal tetto a punta esca una biondina con le trecce che escono dal cappello di feltro bianco, con le gote rosse dal freddo, il vestito a fiori e gli zoccoli ai piedi. Ma forse è solo l’ennesimo parto della mia troppo allenata fantasia. Incrociamo solo “occidentali” donzelle con l’ombellico scoperto che guidano le più improbabili utilitarie giapponesi: mi sembra di essere a piazza S. Giovanni!
All’incrocio dell’ennessimo paesino bavarese il nostro torpore sobbalza per un incidente. I Genovesi finiscono a bambe all’aria ad un incrocio per scansare una BMW (K100). Mio nonno direbbe: cu mangia fa muddrichi.
Cominciamo a risalire una strada che di per se non sarebbe niente di particolare ma che, al buio e con i rischio del ghiaccio, diventa problematica. Al rumore del vento, di colpo, si è sostituito il silenzio del bosco che ci guida fino ad un gruppo di case dove sembra esserci una festa. Arriviamo quasi in punta di piedi con l’impressione di essere in ritardo come ieri mattima quando siamo partiti. Svoltato l’angolo di un incrocio, che sembra essere quello dove in genere i bambini prendono lo scuolabus che li riporta a casa, ci troviamo proiettati in una metarealtà fatta di nevemotogentelucigiocipirotecnici. Finalmente di siamo! Decido allora di festeggiare e casco con la moto. Ma anche questo fa parte del gioco. E’ un po’ il prezzo che ognuno deve pagare al viaggio. Se fai un’autostrada, appena sei a destinazione ed esci al casello, devi pagare il pedaggio. Così ogni tanto va pagato il pedaggio alla fortuna. Questa volta si è trattato veramente di pochi spiccioli.
Non mi sembra vero. Sono, anzi siamo, arrivati all’Elefante. Abbiamo stampata in faccia la maschera della stanchezza. Quasi sconvolti da un viaggio che il freddo ha reso quasi interminabile. Ma siamo arrivati. Adesso siamo dentro quello che la gente racconta come una leggenda. Ci siamo iscritti al 49mo Elefantentreffen. Il L’Elefante come poi sarà ribattezzato.
Le moto adesso sono ferme, noi siamo in piedi, le mani sono libere e libera di ruotare panoramicamente è la testa. Quasi immediatamente perdo la cognizione del tempo. Se cerco di ricordare quanto tempo sia passato dal nostro arrivo al raduno all’ingresso nella fossa, non saprei dire se siano passati dieci minuti o dure ore. Tutto è rimasto sospeso in una dimensione spazio temporale parallela. Noi eravamo li ma la percezione del tempo che passa era congelata come la punta del nostro naso.
Piantare le tende ci ha svelato che stavamo prendendo parte a qualcosa in più di un motoraduno invernale. Lasciare incustodita qualunque cosa significava trovarla ingoiata dalla neve o, peggio ancora, coperta da quella patina ghiacciata che la incolla alla pelle. Anche accendere il fuoco è un’impresa ardua. Il freddo intenso che è calato nella valle ha congelato la legna. Alle nove di sera il fuoco non è ancora partito e la temperatura comincia ad avvinicinarsi inesorabilmente a -16°.
La notte che stiamo per affrontare può essere veramente una lunghissima notte. La stanchezza e la gioia di essere arrivato mi hanno cullato malgrado il freddo maledetto che mi si attacca alle gambe. Solo verso le sei del mattino mi sveglia il canto di Palì e della sua tenda nomade che ha deciso di andare a svernare a valle dove il clima è più mite.
La colazione, come la cena precedente e il successivo pranzo, è stata consumata intorno al fuoco. La prima cosa che ho messo in bocca appena sveglio però, non è ne latte ne the ma brandy. Mi serviva qualcosa che mettese un po’ in circolo il sangue.
Passare le giornate ad una temperatura che si mantiene fissa al di sotto dei -10° trasforma qualsiasi attività in un’ impresa. Niente può rimanere troppo a lungo lontano dal fuoco, persone o cose che siano. Respirare un’aria che sembra solida e mantenere la temperatura delle mani a livelli di vita subumani è uno sforzo che quasi ti sfianca. L’unica cosa che puoi fare è cercare di non freddarti troppo. Poi cominci a mangiare e a bere.
Mi accorgo che riesco a mangiare una quantità di roba doppia rispetto al normale sensa che mi passi la sensazione di fame. Continuo a mangiare e a bere vino o grappa. Se mi viene sete bevo un po’ di quella poltiglia che assomiglia all’acqua che otteniamo scongelando al fuoco la neve.
Ben presto acquisiamo tutti lo stesso odore di selvatico. Come in branco, siamo vestiti dallo stesso odore, tramite quello, quasi riusciamo a riconoscerci. Tutti i paradigmi sociali li abbiamo lasciati all’ingresso del raduno, con l’intendo di recuperarli appena possibile, ma senza fretta. Tutto tende all’essenziale.
Le mani possono servire a tutto. Possono stringere, afferrare, toccare, grattare. Riscopriamo che possono servire per mangiare, per pulire, per fabricare.
Ci guardiamo intorno e ci accorgiamo della varia umanità che ci circonda. Il gruppo dei triestini che con cui ci siamo praticamente adottati, i polacchi che cercano Helga, anche Ciaccio fa la sua fugace e gradita comparsa. Tutto intorno è un brulicare di vita intorno ai fuochi e di bipedi biruotati che operosi come le formiche, indaffarati a tenere acceso il fuoco, trasportano legna e bevono biravinovodkagrappabenzene.
Come il primo giorno, anche per oggi è arrivata l’elefantentreffenora della notte. Questa è più notte di quella di ieri. Il gelo non è più una sensazione ma quasi una presenza che si manifesta con mille modi e forme. E’ il bidone del vino gelato come un ghiacciolo. E’ la carne che si congela anche accanto al fuoco. Se hai le mani scoperte non percepisci più il freddo, percepisci il dolore. Questa è la notte dei venti gradi sotto zero.
Ma anche oggi il sole è sorto. Non si vede in cielo, però dietro questa coltre d’ovatta percepiamo che il sole c’è. E’ ora di partire e di tornare.
Si smontano le tende. Si caricano i bagagli e si accendono le moto che, in barba ai mila kilometri che hanno percorso, partono al volo.
Si parte e si torna. E il freddo è ancora il nostro compagno di viaggio e lo sarà almeno fino a Bolzano. Ricominciare il viaggio riaccende la mia fantasia. Ma questa volta non ci sono mulattiere in salita. Navigo placido per i pianori del ricordo. Involontariamente inizio a ricordare tutti i momenti che ho appena vissuto per non diementicarli. Ripeto pedissaquamente nei miei ricordi tutti gli attimi che ho appena vissuto per non dimenticarli. Per non dimenticare quelle sensazioni che ho provato. Nemmeno il gelo del Brennero riesce a distrarmi dai ricordi. Porto ancora al polso il bracciale badge, mostro orgoglioso la spilla che porto in petto, nemmeno fossi un veterano della resistenza. E mi piace pensare che siamo stati li.
Arriviamo a Bolzano e sotto le docce lasciamo che la nostra collezione di odori posegua la sua strada senza di noi. I vestiti ci ricorderanno ancora per molto tempo quello che è stato questo fine settimana.
Arriviamo a Roma in tre, stanchi dopo 600 kilometri fatti tutti d’un fiato e l’ultima cosa che riusciamo a dire con gli occhi pesti dalla stanchezza è: “ragà, l’anno prossimo ci organizziamo meglio”.
A Giorgio, Max, Moroboshi, Aran, Motogordon, Roberto, Fabrizio, Palì, Stefano, Domenico e Andrea e ad Ivan che sono stati i miei compagni di viaggio.
A Triplo e a MacFrugis e a tutti gli sporchi che ci hanno sostenuto a distanza.
A krilù mia fidata compagna.
MaC.
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