Yazd – Chak-Chak – Yazd (140 km)
23 agosto
Sveglia. E’ un delitto dover abbandonare questi letti con lenzuola fresche, pulite e profumate per rivestirsi con giacche e pantaloni che ormai si reggono in piedi da soli, ma stamattina ci aspetta Chak-Chak.
Sulle cartine non è indicato, ieri all’ufficio del turismo di Yazd hanno tentato di dissuaderci dall’andarci con i nostri mezzi…
“Sapete non è facile trovarlo, la strada si inoltra nel Dasht-e Lut, non passa nessuno, potrebbero esserci problemi…”
Vabbè, ma quanto costa il giro con il pulmino? Cosa? Ok, si va in moto!
Abbiamo Gps, mappe, bussole, briciole di pane per ogni evenienza…
Al primo incrocio, ancora dentro Yazd, già ci guardiamo intorno spaesati… in una frazione di secondo siamo circondati da iraniani che vogliono aiutarci. Alcuni di loro neanche sanno cosa sia questo Chak-Chak, poi qualcuno pare che lo conosca, un altro ci regala un dettagliatissimo atlante stradale dell’Iran però in lingua farsi, un altro telefona ad un suo amico e consegna il telefono a Daniela… Insomma in Iran magari ti perdi, ma certo non muori in solitudine.
Dopo aver sbagliato strada un altro paio di volte, finalmente puntiamo verso il deserto, c’è una strada che si perde in lontananza e anche se non dovesse portare a Chak-Chak, pazienza, è comunque bellissima e c’ha, aspro, il sapore dell’avventura. Andiamo.
Gli ultimi km di pietraia sono la ciliegina sulla torta. Arriviamo ai piedi della montagna, oltre non si può andare a meno di avere una moto da trial.
Più in alto, sul pendio, c’è un gruppo di iraniani fermi all’ombra di un muro, ci guardano arrivare e non smettono di ridere. Lasciamo giacche e caschi sulle moto, facciamo le foto rituali, e poi attacchiamo baldanzosi le ripide rampe di scale che dovrebbero portare alla grotta dove arde il famoso fuoco eterno sacro agli Zoroastriani.
Come è ovvio con quel caldo, alla prima rampa stiamo già boccheggiando come pesci rossi in cerca di ossigeno quando, in nostro soccorso, arrivano fortunatamente gli iraniani di prima che ci raccolgono con il cucchiaino e ci invitano ad accomodarci su una terrazza in attesa del tè. Non ci passa neanche per l’anticamera del cervello di rifiutare e ci buttiamo esausti e assetati sui due tappeti stesi all’ombra, uno per gli uomini ed uno per le donne.
Il baffo c’ha due mogli e una quindicina di figli. Uno di questi è un personaggio di una comicità travolgente, è difficile non scoppiare a ridere al solo guardarlo.
Facciamo la nostra solita figuraccia buttando le pietruzze di zucchero dentro il bicchiere invece di metterlo in bocca come fanno loro e la cosa li diverte parecchio anche perché questo zucchero che usano in Iran è buonissimo anche se duro come la pietra e gli svuotiamo la zuccheriera.
L’allegria non manca e le foto, i baci, i biscotti, il tè, il vocabolarietto italiano-farsi fanno il resto.
Basterebbe questo incontro per giustificare la pietraia per arrivare a Chak-Chak.
Dopo aver passato in allegria un’oretta ci rimettiamo rinfrancati e motivatissimi sulle scale ed arriviamo alla grotta.
Immaginate un deserto con una montagna al centro. Su questa montagna arida e arroventata c’è una fenditura. Da non si capisce bene dove penetra dell’acqua che dalla volta della grotta cade a gocce, ritmicamente, sul pavimento in marmo che circonda l’altare dove arde il fuoco eterno. Quale è il rumore che fa l’acqua cadendo sul pavimento? Chak… Chak….
La sensazione dei piedi nudi sul fresco e bagnato pavimento di marmo, mentre fuori l’orizzonte è falsato dall’onda di calore che sale dalle sabbie del deserto, è unica.
Due uomini mi si avvicinano e mi chiedono sottovoce a che religione apparteniamo…. stavolta gli rispondo subito “Cattolica” senza pensarci due volte. Mi dicono di essere musulmani, mi stringono entrambi la mano e se ne vanno.
Rimaniamo in contemplazione di questo posto magico ancora per un po’ da soli, in compagnia dell’anziano custode, poi, sempre in silenzio, ci rimettiamo gli stivali lasciati fuori della grotta e ognuno perso dietro i propri pensieri riscendiamo per riprendere le moto.
Sulla via del ritorno Moroboschi dà senso alle sue ruote tassellate e lancia l’Africa dritta in fuoristrada contro le montagne bianche. Porta con se delle bottigliette da riempire con la sabbia da raccogliere sulle dune immense che si innalzano ai lati della strada. E’ un piacere guardarlo allontanarsi, diventare sempre più piccolo e infine lasciare la moto, chinarsi e scavare una piccola buca alla ricerca dei granelli più puri del Dasht-e Lut.
Rientriamo a Yazd con qualcosa che difficilmente dimenticheremo…
La giornata è ancora lunga e cerchiamo di sfruttare ogni minuto, consapevoli che tra qualche giorno tutto questa magia che stiamo vivendo sarà solo un ricordo.
Il bazar ci accoglie a braccia aperte. Mettiamo su un teatrino in una bottega di tessuti cominciando a contrattare ferocemente i prezzi di stoffe, cuscini e tovaglie bellissime… Inizialmente il commerciante regge discretamente “botta” ma poi con Moroboschi che indossa un gilet preso dagli scaffali tutto imperlinato che lo fa risplendente come un marajà ed io che passo dall’altra parte del bancone per mettermi a vendere la roba del bottegaio contrattando i prezzi con Moroboschi e facendo gli interessi del commerciante, la situazione degenera. Il bottegaio comincia a sudare copiosamente poi, non riuscendo più a capire perché mai io mi ritrovi dietro al bancone, vicino a lui, a fare i suoi interessi, chiama il suo “boss” per farsi dare manforte. Accorrono altri iraniani e delle ragazze spagnole che avendo capito che li ci si fanno quattro risate e probabilmente si risparmia pure, si uniscono alla baraonda.
Ce ne andiamo felici e sorridenti con due sacchetti colmi di regali da riportare in Italia.
Usciamo in strada e mentre cerchiamo di orientarci tra i pedoni, una ragazza si avvicina a Daniela e le chiede se abbiamo bisogno di aiuto. Approfittiamo e le chiediamo un posto per mangiare in maniera tradizionale e non turistica. Si avvicina anche il fratello che intanto ha parcheggiato la macchina lì vicino e ci portano in una sala da tè dove scambiamo quattro chiacchiere e li invitiamo a cena.
Dopo varie insistenze riusciamo a convincerli. Saliamo tutti e cinque sulla Saba bianca e ci portano attraverso gli stretti vicoli di Yazd, con gli specchietti retrovisori che strusciano le pareti, in un ristornate raffinatissimo. Musiche d’atmosfera, giochi d’acqua e un cibo davvero eccellente coronano una serata indimenticabile.
Ci riaccompagnano in albergo e poco dopo Daniela si accorge di aver perso il PORTAFOGLIO!!!!! Ok, niente panico…dove pensi di averlo perso? Qui fuori? Sotto il letto? Nella hall?….??? No, nella macchina degli iraniani!!!! Ok, PANICO!!!! Per fortuna Moroboschi si era scambiato il numero di telefono con il ragazzo iraniano e Daniela chiama. Dopo pochi minuti ci dicono di aver ritrovato il portafoglio in macchina. Ce lo porteranno l’indomani mattina presto. Ci addormentiamo sereni con la certezza che la mattina dopo Daniela riavrà il suo portafoglio.
Yazd – Abyaneh – Kashan
24 agosto
Il sommesso e leggero bussare alla porta di legno massiccio della stanza mi fa riemergere dai dolci sogni della notte persiana di Yazd.
Passi ovattati e veloci. Le parole di Daniela: “…moteshakkeram, Elaheh…grazie…khodà-àfez…addio…”
Sono le 06,30 di quella che sarà certamente una splendida giornata iraniana, l’ennesima. Daniela rientra in stanza con il portafoglio e un piattino colmo di fichi colti nel giardino e portati da Elaheh. Mi giro sereno nel letto e le emozioni vissute fino a quel momento prendono il sopravvento sui quotidiani pensieri legati alla parte logistica del viaggio, all’olio consumato, alle catene da ingrassare, alla speranza e necessità che non si rompa niente, che i fisici e le menti reggano la fatica e che tutto questo delicato equilibrio rimanga tale.
Mi assale un po’ di tristezza. Certo la nostalgia, la voglia di riabbracciare quelli rimasti a casa e raccontare tutte le emozioni fin qui vissute è forte, ma è altrettanto forte la percezione di essere arrivati così lontano e di non poter proseguire oltre, e le parole degli iraniani fuori dell’albergo: “Now you Pakistan? India?” non fanno che acuire questa percezione di qualcosa che comunque e nonostante tutto, rimarrà incompiuto probabilmente per sempre…
Ci salutiamo con il personale dell’albergo ed anche stavolta gli abbracci e i baci, le strette di mano e gli inchini si sprecano, così come le foto educatamente richieste a cavallo delle moto. Seguiamo le indicazioni per l’autostrada Yazd-Teheran. Al casello, l’addetto ci squadra, perplesso sulla tariffa da applicare…moto così loro non ne vedono, sembriamo camion ma abbiamo solo due ruote, ci sono mercanzie caricate sopra ma non c’è l’asinello davanti…ci fa segno di proseguire senza pagare il pedaggio. 130 km/h, direzione Abyaneh, paesino abbarbicato sulle montagne, citato da tutte le guide come perla dell’Iran, ennesimo sito dichiarato patrimonio dell’umanità in questo fantastico Paese.
La strada che prima taglia l’altopiano ai margini del Dasht–e Kevir e poi s’inerpica sui monti, è costellata da postazioni militari.
Mitragliere e cannoni puntati verso il cielo. Qui, pare che ci siano le installazioni per il programma nucleare iraniano. Inequivocabili cartelli sparsi dappertutto invitano a non scattare fotografie… sacchetti di sabbia, reticolati e torri d’avvistamento inducono l’oculato e prudente Sporcoendurista a tirare dritto tenendo bene in vista le mani sul manubrio. A Daniela suggerisco di alzare le mani in segno di resa per evitare qualsiasi fraintendimento con gli artiglieri iraniani.
Ma….!!!!??? …
’azzo sta facendo il Moro?
Si è fermato!!!!
NOOOOO!!!!!
Sta fotografando il cartello che dice di NON FOTOGRAFARE!!!
Accelero, lo supero e cerco di allontanarmi il più possibile da lui prima che arrivi l’onda d’urto dell’esplosione…3…2…1….???????…..
BRRROOOOM!!!!! Mi supera allegramente smarmittato come niente fosse… gli faccio cenno toccandomi il casco che è un pazzo e proseguiamo.
(Successivamente mi dirà di non aver capito perché fosse vietato fotografare….!!!)
Soldati da una postazione antiaerea ci salutano. Più avanti ci accostiamo per riposarci ma da un altro trinceramento ci fanno cenno di non fermarci e proseguire….insomma con la questione della foto, secondo me, siccome non c’hanno visto o hanno fatto finta di niente, ce la siamo scampata bella.
Arriviamo ad Abyaneh praticamente liquefatti. Il metro scarso di ombra prodotta da un muro di paglia e fango color ruggine ci accoglie ospitale e silenzioso. L’acqua nelle borracce termiche è fetida e bollente ma la beviamo ugualmente avidi. Guardo gli altri due e vedo due facce cotte dal sole e abbastanza provate ma risolute e convinte.
Ad un mio lievissimo dubbio, risponde pronto Moroboschi con la frase che diverrà il motivo conduttore del resto del viaggio e che citeremo almeno un altro paio di drammatiche volte:
“Quando cominci a chiederti chi te lo ha fatto fare, vuol dire che il viaggio è riuscito”
Ci spostiamo sotto delle frasche dove altre persone stanno facendo pic-nic.
Ci offrono cibo e bevande, ricambiamo con sigari italiani e il solito chiacchiericcio.
Dopodiché ci intrufoliamo nelle viuzze di Abyaneh dove non gira quasi nessuno.
Peccato che ci sia della spazzatura accumulata nei sottoscala e negli accessi alle cantine. Mi riprometto di scrivere una vibrante nota di protesta all’ufficio del turismo iraniano per questa intollerabile situazione non appena tornato a casa. Poi mi dico che, tutto sommato, con tutto quello che sembrava dovesse succederci in Iran, un po’ di sana mondezza ci può anche stare.
Riprendiamo la strada e nel tardo pomeriggio entriamo spavaldi a Kashan dove ci attende la consueta stesa dei panni, il solito bazar, lo struscio serale e la spasmodica ricerca in taxi degli adesivi iraniani da appiccicare sulle moto.
…ma la stanchezza comincia a farsi sentire ed ogni posto è buono per riposare.
Kashan-Qom-Teheran-Qazvin
25 agosto
Andiamo di corsa. Moroboschi ha promesso un’intervista ad un’emittente radiofonica di Teheran che all’interno di una rubrica in lingua italiana vorrebbe inserire la nostra esperienza di viaggio e le nostre impressioni sull’Iran.
L’appuntamento è per oggi a Teheran; siamo un po’ combattuti… siamo costretti a fare un tappone saltando necessariamente la visita a Qom e fermandoci giusto il tempo per immortalare un mosaico che è l’emblema politico iraniano degli ultimi anni e buttarci in un lago salato…
……ma l’idea di essere intervistati dall’inviata Nazanin Motevasseli ci attrae molto.
Il luogo dell’incontro lo decidiamo noi: proprio di fronte all’ ex ambasciata americana, che qui hanno ribattezzato “il covo di spie” assaltata dagli studenti iraniani nel 1979 e mai più riaperta.
Arrivare a Teheran ad Agosto, in moto, per attraversarla e giungere nel centro di questa metropoli di 16 milioni di abitanti credo sia una delle esperienze motociclistiche psicologicamente più devastanti e al tempo stesso esaltanti che si possa immaginare, a patto di uscirne vivi per poterla descrivere.
Dunque la fredda cronaca.
Si giunge in prossimità dei primi anelli di tangenziali concentriche di Teheran con l’orizzonte completamente oscurato dalla città.
Credo di aver sperimentato la stessa emozione mista a terrore che devono aver provato gli assalitori di Stalingrado:
I tassisti iraniani stanno sportello contro sportello al di là delle barricate pronti a respingerti come una testuggine d’acciaio, i pulmini collettivi non aspettano altro che di asfaltarti e tutti gli altri, automobili, motorette, autobus e camion sono in attesa di farti lo scalpo da riportare come trofeo a casa.
Ogni centimetro conquistato in questa bolgia sarà una vittoria ….mi riviene in mente il film con Al Pacino e il suo memorabile discorso pre-partita:
“Siamo all’inferno adesso, signori miei. Credetemi. E … possiamo rimanerci, farci prendere a schiaffi oppure aprirci la strada lottando verso la luce. Possiamo scalare le pareti dell’inferno un centimetro alla volta… fa parte della vita. Capitelo …Mezzo passo fatto un po’ in anticipo o in ritardo e voi non ce la fate. Mezzo secondo troppo veloci o troppo lenti e mancate la presa. Ma i centimetri che ci servono sono dappertutto, sono intorno a noi …
In questa squadra si combatte per un centimetro. In questa squadra massacriamo di fatica noi stessi e tutti quelli intorno a noi, per un centimetro. Ci difendiamo con le unghie e con i denti per un centimetro. Perché sappiamo che quando andremo a sommare tutti quei centimetri, il totale allora farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta, la differenza tra vivere e morire. E voglio dirvi una cosa: in ogni scontro è colui il quale è disposto a morire che guadagnerà un centimetro. E io so che se potrò avere un’esistenza appagante sarà perché sono disposto ancora a battermi e a morire per quel centimetro. La nostra vita è tutta lì. In questo consiste, e in quei 10 centimetri davanti alla faccia. Ma io non posso obbligarvi a lottare! Dovrete guardare il compagno che avete accanto, guardarlo negli occhi. Io scommetto che ci vedrete un uomo determinato a guadagnare terreno con voi, che ci vedrete un uomo che si sacrificherà volentieri per questa squadra, consapevole del fatto che quando sarà il momento voi farete lo stesso per lui. Questo è essere una squadra, signori miei! Perciò … o noi risorgiamo adesso, come collettivo, o saremo annientati individualmente. E’ tutto qui. Allora, che cosa volete fare?”
(Ogni Maledetta Domenica titolo originale Any Given Sunday)
Ci guardiamo, ingraniamo la prima e ci buttiamo in mezzo alla mattanza.
Arriviamo a Ferdosi Square letteralmente distrutti dalla tensione e dalla lotta. Ci si avvicinano due ragazzi, uno è italiano e l’altro iraniano.
Capiscono al volo la drammatica situazione e arruolano un ascaro su un motorino per farci scortare fino all’ambasciata.
Questo sul motorino sta sui 40 abbondanti, ci guarda sornione, abbozza un mezzo sorriso, sputa per terra e, facendo cenno di seguirlo, parte…. a razzo.
Qualunque immagine di pischelli nostrani a bordo di cinquantini elaborati che fanno la gimcana in mezzo al traffico italico levatevela dalla testa.
Nel traffico di Teheran dell’ora di pranzo Valentino Rossi sarebbe un fermone, insomma, una mezza sega. Qui siamo a livelli irraggiungibili, qui fanno la Storia dell’incoscienza su due ruote.
Non posso descrivere le nefandezze che abbiamo subito e compiuto per paura che ci ritirino la patente retroattivamente.
Dico solo che su alcuni tratti ho chiuso gli occhi, in altri ho invocato S. Cristoforo, altre volte avrei voluto uccidere e altre volte morire.
Un solo esempio: pensate che sia possibile prendere una tangenziale contromano zigzagando tra canali di scolo e tombini semi aperti e pedoni suicidi? A Teheran sì. Punto.
Non so come ma arriviamo a destinazione. Taleqani Avenue, proprio di fronte l’ex ambasciata Usa.
Teoricamente saremmo pronti per una qualsiasi azione eversiva suicida ma cerchiamo di riprendere una postura civile per affrontare l’intervista.
Nell’attesa proviamo comunque a farci ammazzare dalle guardie iraniane scattando foto vietate ai murales che ornano il muro dell’ex ambasciata.
Daniela c’ha un mezzo alterco con un pasdaran convinto dell’inferiorità delle donne.
Moroboschi fa finta di consultare cartine mentre di soppiatto scatta fotografie a ripetizione.
Con supremo sprezzo del pericolo approfitto del fatto che un guardiano sta chiudendo il portone e, attraverso la sua guardiola, entro nei giardini dell’ambasciata americana. Appena se ne accorge si mette le mani nei capelli e poi senza tanti complimenti mi sbatte fuori.
Insomma pure lì non ci facciamo parlare dietro.
Intanto riceviamo la notizia che l’intervista è purtroppo saltata. Non serve che ce lo ripetano due volte e rimontati sulle moto, dopo una decina di tentativi riusciamo finalmente a sfondare l’accerchiamento e a riparare a Qazvin.
Qazvin – Rasht – Masuleh – La Tenda Rossa (N37 40 52.6 E48 28 41.0)
26 agosto
Si parte presto da Qazvin perché in realtà ci stiamo dissociando mentalmente e non sappiamo dove andare e cosa fare, c’è chi parla dell’Armenia, chi della Turchia, chi del Kazakistan e chi dice di tornare indietro a Yazd per aprire un pub o un sexy shop.
Fatto sta che alla fine, vista la bella giornata, si opta per una gitarella al mare, il Mar Caspio. Metà della popolazione del nord ovest dell’Iran c’ha avuto la nostra stessa idea e quindi ci mettiamo in coda sulla strada che porta a Rasht.
Ci manca solo il coccodrillo gonfiabile legato sopra.
Ci innervosiamo abbastanza in mezzo al traffico caotico fino alla deviazione per Masuleh, dove, sperando in un po’ di refrigerio, ci dirigiamo fiduciosi. Manco per niente. Pure lì un forno crematorio solo leggermente meno umido.
Mangiamo, ci riposiamo un po’ e poi ripartiamo, direzione la costa, sempre con il miraggio di un refolo di aria fresca che non arriva.
Schiumiamo come asini sulla strada per Hashtpar e stiamo per svenire esausti quando da un negozio ci vedono, e nel rispetto della sharia sciita che impone il dovere di soccorrere i viandanti che muoiono di caldo e sete, ci portano sedie e cola ghiacciata.
A volte il destino è veramente beffardo. Grazie alle indicazioni dei nostri simpatici soccorritori giriamo a sinistra, prendendo la strada per le montagne e rinunciando definitivamente alla vista del Mar Caspio che è lì, a 50 metri da noi, ma invisibile dietro una coltre di umidità invalicabile.
Bastano pochi km su quella strada che si arrampica rapida e veloce sulle montagne dell’Azerbaijan iraniano; bastano pochi km percorsi in mezzo ai boschi per tornare a respirare e per renderci incautamente dimentichi del caldo patito a Rasht.
Un imprudente ottimismo ci spinge ad inoltrarci sempre più in alto, alla ricerca del fresco ristoratore dopo tanti patimenti, ignorando i richiami di comodi chioschi con bivacchi ed inspiegabili (ai nostri occhi) bracieri accesi che ci sono lungo la strada e ai margini dei boschi. Il panorama cambia repentinamente: non più vapore acqueo e umidità al 100% ma foreste, nuvole basse e aria finissima.
Andiamo oltre, troveremo sicuramente un posto per dormire più avanti, d’altronde fino adesso non abbiamo mai avuto problemi per dormire. Appunto, fino adesso.
I piccoli sgangherati paesi di montagna che attraversiamo non hanno la benché minima struttura ricettiva ed ogni volta che ci fermiamo per chiedere, ci mandano oltre con la speranza e la chimera che forse al prossimo paese ci sia qualcosa. E la strada continua a salire inerpicandosi ad altezze poco raccomandabili e comincia anche a piovere.
Panorami incredibili davanti ai nostri occhi, montagne verdi, greggi al pascolo, villaggi arroccati lungo valli serpeggianti, pastori, malghe sbilenche e squarci di luce cangiante tra nuvole e pioggia… ci sarebbe di che preoccuparsi per l’ora e per la media indegna anche di una gara podistica tra ultra ottantenni, invece sono pervaso da una felicità contagiosa.
Comincia a calare il sole ma finalmente arriviamo a Khalkhal e parcheggiamo davanti al primo dei due alberghacci indicati sulla guida.
Il posto c’è ma il prezzo che ci fanno è scandalosamente diverso da quello esposto alle spalle dell’individuo dietro al bancone e che noi, ormai capaci di leggere i numeri arabi, gli facciamo subito notare. La trattativa prosegue, fino ad arrivare ad un compromesso, poi la doccia gelata.
Le moto devono rimanere per strada ma, ci dicono, il posto non è affatto sicuro e non c’è alternativa. Ci suggeriscono di provare con il secondo albergo ma la guida già ci preannuncia che lì gli stranieri non sono accettati e stavolta la Lonely ci azzecca in pieno. “Voi no, ma le moto possono restare qui fuori”.
Il senso di fastidio e la sensazione che qualcosa non quadri perfettamente, affinata in tanti viaggi, ci fa rimontare in moto, mentre s’insinua la prospettiva di passare la notte in tenda.
Almeno daremo un senso al fardello che ci portiamo appresso ormai da …quanti sono? 17 giorni. 17, appunto, non poteva essere diversamente.
Il sole cala veloce tra le montagne azere e la necessità di trovare presto un posto per accamparci diventa una priorità assoluta.
Mai guidare al buio e poi qui, su queste strade prive di qualsiasi protezione verso il baratro, sarebbe un suicidio.
Preso dalla frenesia imbocco per primo un sentiero che si rivela un budello. Mi pianto come un pino e ci vorranno gli sforzi concentrati di tutti e tre e tempo prezioso per girare l’Africa trascinandola fino a farle compiere un angolo di 180° e risalire con la coda tra le gambe sulla strada principale.
Improvvisamente sulla sinistra una serie di campi coltivati e quattro case. La sensazione è che il posto sia giusto non tanto perché lo sia ma per mancanza di scelta.
Attraverso un vicolo sterrato raggiungiamo un’aia al centro di questo piccolo villaggio che sembra apparentemente deserto. Stanno tutti nell’aia, vestiti a festa e ci accolgono a braccia aperte. Stanno per iniziare una cerimonia nuziale e molti sono già clamorosamente alticci.
Chiediamo il permesso di accamparci nel campo all’ingresso del villaggio e quelli tutti contenti ci accompagnano in processione e assistono al montaggio della tenda.
Finito di montare il Moroboschi si sacrifica e li segue alla festa per permettere a Daniela di andare in “bagno” lontana da occhi indiscreti ma pericolosamente vicina a delle arnie.
Ci infiliamo in tenda da soli io e lei con la compagnia della musica sparata ad altissimo volume che arriva dal villaggio e dalle urla al microfono: “ITALIANI!!!!!”… “FRIEND… ITALIANO!!!!!”.
Non ci vuole molta fantasia per capire che il Moroboschi, per non sfigurare, sta sfoggiando tutto il suo ampio repertorio: dai balli etnici collettivi ai brindisi russi. Dopo un po’ rientra con roba da mangiare e racconti da far accapponare la pelle.
Scende la notte nera come la pece e mentre nel villaggio la musica e i canti non finiscono, noi, invece, ci apprestiamo a sopravvivere nella tenda con una temperatura polare nella peggior notte che io ricordi.
Cosa ci può essere di peggio di un caldo infermale? Il freddo gelido, intenso, il freddo che ti paralizza movimenti e pensieri, che ti fa tremare e battere i denti e ti fa passare le notti insonni rimpiangendo il caldo umido di Rasht.
Non abbiamo né sacchi a pelo né materassini perciò ci stendiamo a terra completamente vestiti, compresi gli stivali. Ci manca solo il casco. Ci abbracciamo tutti e tre nel tentativo di scaldarci ma tra i rumori, il gelo e i fantasmi che Daniela è convinta si aggirino intorno alla tenda pronti a farci fuori, non chiuderemo occhio per tutta la notte, con il GPS che segnala minaccioso 2.108 metri s.l.m.
La Tenda Rossa – Orumiyeh
27 agosto
Mai un’alba, seppur gelida, sarà accolta con lo stesso nostro entusiasmo.
Alle 06.00 siamo già fuori dalla tenda a battere i piedi nel tentativo vano di scaldarci e dopo che il Moroboschi ha aiutato pure un contadino con l’impianto di irrigazione del campo, leviamo la tenda, rimontiamo in moto e ce ne andiamo.
Grazie per l’ospitalità Azerbaijan!
Scendiamo dalle algide vette come due sottomarini in immersione rapida. Alle 09.13 stiamo già spalmati come tre lucertole al sole fuori da un chioschetto e per rinfrancarci ci facciamo portare una bella colazione a base di uova fritte, cipolla e chai bollente.
Scaldati e con una bella fiatella degna dell’impresa artica, ripartiamo con la vita che nuovamente ci arride spensierata.
Caliamo come unni nella piana sottostante. Ormai girovaghiamo senza una meta ben precisa forse nel tentativo più o meno inconsapevole di prolungare all’infinito la nostra permanenza in Persia.
Anche la provincia dell’Azerbaijan, come tutto l’Iran del resto, ha pagato un tributo pesantissimo in termini di vite umane durante il conflitto Iran-Irak e anche qui, il ricordo e il culto dei “martiri” è sempre presente.
Ci aggiriamo nei pressi di Tabriz indecisi se puntare nuovamente verso nord e ripassare la frontiera a Bazargan, dove tra l’altro ci hanno ritirato un documento relativo al “carnet de passage en douane” che non abbiamo capito se ci serve riavere, o provare con la frontiera di Sero più a ovest verso il confine irakeno e da lì attraversare il Kurdistan per approdare a Van, e finalmente arrivare a questo famoso lago dentro al cratere di un vulcano con i racconti del quale il Moroboschi ce li sta facendo a peperini da mesi.
La disorganizzazione e l’approssimazione comunque a questo punto del viaggio, regnano sovrane.
Daniela declama le bellezze del lago salato di Orumiyeh (Urmia) quindi, forti di queste nuove direttive, si punta decisamente verso ovest.
La pausa pranzo purtroppo decidiamo di farla sulle rive di un lago.
Seguo il Moro che fa da apripista in una ragnatela di sentieri sterrati e ci piazziamo all’ombra di un gruppo di eucalipti.
Ma non siamo soli. Famiglie iraniane stazionano sotto gli alberi. C’hanno tutto l’armamentario indispensabile per farci perdere tempo: patate cotte alla brace, semi di girasole da sgranocchiare, tappeto steso sulla sabbia e l’immancabile samovar in perenne ebollizione pieno di chai.
Potrebbe mancare il senso dell’ospitalità? Manco per niente.
E infatti in un minuto scarso ci circondano, ci ammanettano e senza tanti complimenti ci schiaffano sul tappeto obbligandoci a mangiare tutto e a bere litri di chai alla menta.
Opponiamo fiera ma breve resistenza e ci sbrachiamo rilassati insieme a loro.
In un paio d’ore succede di tutto:
il capofamiglia inscena un teatrino imitando una gallina che becca ma non fa l’uovo, Moroboschi quasi si fidanza, e Daniela viene tastata da una vecchietta che, vistala con pantaloni, stivali, protezioni varie e, dopo tanti giorni allo stato brado con me e Moroboschi, anche forse con un leggero velo di barba, vuole probabilmente sincerarsi della sua femminilità.
Al momento dei saluti ci regalano pure una bottiglia di aranciata e una boccettina di profumo.
Attraversiamo zone piatte, ci avventuriamo all’interno del lago salato, poi imbocchiamo la banchina che si perde all’orizzonte, tagliando il lago in direzione della città di Orumiyeh.
Il terrapieno è ingombro di veicoli in fila ordinata per km ma non riusciamo a capirne il motivo… forse un incidente… passiamo guardinghi a fianco della colonna e arriviamo a scoprire il motivo della coda. Il terrapieno dopo qualche km s’interrompe.
Ci dicono che una società norvegese sono vent’anni che sta lavorando al completamento dell’opera e manca poco affinché anche l’ultimo ponte colleghi i due terrapieni da una parte all’altra dell’immenso lago.
Al momento uno scalcinatissimo mezzo da sbarco risalente alle guerre persiane fa la spola tra le due estremità dei moli garantendo un lento ma continuo collegamento.
Paghiamo il biglietto e ci ammassiamo insieme a tutti gli altri riempiendo in maniera preoccupante la bagnarola rugginosa.
In pochi minuti di navigazione ci sbarcano dall’altra parte e ci dirigiamo verso la città.
C’è una macchina ferma sul lato della strada, il conducente si sbraccia cercando di attirare la nostra attenzione… .andiamo veloci quindi lo sorpasso e poi mi fermo ad una cinquantina di metri.
Quello riparte con la macchina e mi si affianca. Che sarà successo? C’avrà un’emergenza? Avrà bisogno d’aiuto?
“Welcome to Iran!” mi dice.
Lo ringrazio, lo mando intimamente a quel paese e ripartiamo. La ricerca di un albergo è accompagnata dai soliti capannelli di gente ogni volta che ci fermiamo.
E’ la nostra ultima notte persiana, e per festeggiare ci concediamo il miglior albergo di Orumiyeh. E nel miglior albergo c’è rimasta solo la “Suite Imperiale” come ci comunica l’impeccabile signorina alla reception. Accettiamo la sistemazione senza battere ciglio. E sganciamo lo smodato prezzo di 900 Rial (circa 60 Euro, sempre in tre), ma quando ce vo’, ce vo’.
Passiamo l’intera serata ciabattando mollemente per i viali di Orumiyeh cercando cartoline e francobolli che pare qui non esistano.
Sconfortati dalla tragica prospettiva di non poter scrivere le cartoline, affoghiamo la preoccupazione in abbondanti piatti di kebab e fresche bottiglie di zam-zam e poi ce ne andiamo a nanna.
Mi addormento con l’idea che quando mi chiederanno dei gravi problemi e delle difficoltà avute in Iran dovrò purtroppo dire che non siamo riusciti a trovare cartoline da spedire a casa.