La Regina di Saba, Aladino e Ali Baba da Roma a Persepolis.
(report tragi-comico di un viaggio in moto in Iran)
I personaggi
la Regina di Saba: Daniela
Aladino: Moroboschi, per brevità “Il Moro” (Luigi)
Ali Baba: Triplo (Fabrizio)
L’Operatione Troia, citata all’inizio del report, ha visto i suoi partecipanti (Smucinella, Gemsx, Giancarlo, Girolamo e Palì), tutti Sporchienduristi, condividere una parte del viaggio insieme a noi fino a Cesme. Da lì hanno poi proseguito per il tour programmato della Turchia con il ritorno attraverso Grecia, Macedonia, Montenegro e Croazia.
Prologo – Epilogo
Teheran, 12 Settembre 1387 (2008)
Il muezzin nascosto nella radiosveglia appoggiata sul comodino di questo albergo stranamente di prim’ordine mi sveglia con la sua nenia.
Sono le sette di una mattina un po’ troppo plumbea; guardo fuori: devo capire se è smog o cattivo tempo.
Di sicuro l’umore è cattivo e l’alito sa di cipolla. Faccio colazione a base di caffè, latte e cornetto… dove sono finiti i pomodori, le uova fritte e i cetrioli? E perché Daniela non indossa l’hejab?
Uhmmmmm…troppo occidentale questo albergo. Prendo la moto ed esco.
Il traffico è il solito cataclisma di lamiere incastrate lungo Imam Nomentana, e prima di arrivare a Imam Sempione Square faccio la solita battaglia a sportellate con questi automobilisti iraniani che …finalmente mi sveglio.
Sono a casa, a Roma.
Oggi è il mio primo giorno di lavoro dopo 33 secoli di viaggio.
Indosso la stessa lercia e maleodorante giacca del viaggio e scendo al box.
Lei è lì, muta e fiera. Porta addosso i segni che riconosco ad uno ad uno, granello per granello: la sabbia del Dasht-e Lut, il sale di Orumiyeh, la polvere di Yazd, il fango del Nemrut Dagi e pure le cacche degli uccelli di Silifke.
Altri 10.740 km nel suo cuore e il simbolo di Allah come rostro sulla prua.
Salgo, accendo e parto.
Io sono Marco Polo e sono appena tornato dall’Iran.
Roma – Brindisi
Sabato, 09 agosto
Quest’anno ho deciso di non farmi prendere dalla solita ansia quindi cerco di convincermi da qualche mese che il giorno della partenza è “domani” in modo da diluire scientificamente lo stress, con tutto ciò che ne deriva, nell’arco di più giorni. Ovviamente il mio intestino non abbocca al tranello e si vendica la mattina della partenza liberandosi del suo fardello e facendoci arrivare con 5 intollerabili minuti di ritardo all’appuntamento con il Moroboschi.
Sta sorgendo il sole ma l’Ermetico è già lì con Alessia, l’Africa e un altro tipo di bagaglio… non verranno con noi, hanno un altro bel viaggio da affrontare, di quelli che parti in due e torni in tre per capirci.
Moroboschi è il solito kamikaze invasato. Gli somministriamo qualche boccetta di lexotan nel cappuccino e lo settiamo su una velocità congrua, programmando il suo mezzo cervello rimasto (l’altra metà già parla persiano e non riusciamo più a trovare Ctrl Alt Esc) per le soste e gli appuntamenti che via via si snoccioleranno per raccattare quei baraccati dell’”Operatione Troia” lungo tutto lo stivale fino a Brindisi, dove ci attende a bocca spalancata la motonave CESME.
Cosa significa partire? Leggo sul vocabolario Moroboschi-Italiano… partire: ingranare la prima e lasciare la frizione. Bene. Chiudo il vocabolario, ingrano la prima (giù) e lascio la frizione. Destinazione Persepolis, Repubblica Islamica dell’Iran e Stato Canaglia per eccellenza.
I primi due baraccati (Gemsx e Smucinella) dell’”Operatione Troia” si fanno trovare all’appuntamento. Gemsx c’ha ancora lo spazzolino incastrato tra i denti ma non voleva fare brutta figura con noi “sponsorizzati”.
Proseguiamo per recuperare Giancarlo e Girolamo nella peggior area di servizio della galassia. Sembra Calcutta Nord.
Entrano tutti e non esce nessuno, come se facessero giocare il Napoli per la finale di coppa campioni dentro un ascensore rotto. Una bolgia.
In più una bolla di onde radio impazzite impedisce pure la possibilità di usare i cellulari e al posto del sudore comincia ad uscire una schiuma giallastra e acida. Autostrade d’Italia ci aveva gentilmente informati che il 9 agosto sarebbe stata una giornata da bollino nero, ma per strada non passa una macchina, stanno tutte lì pigiate dentro l’area di servizio Capua Nord.
Probabilmente Giancarlo e Girolamo saranno pure arrivati puntuali all’entrata dell’area di servizio ma prima di raggiungerci vicino ai cessi impiegano un’ora e tre quarti. Salutiamo tutti quelli che rimangono nell’area di servizio e a colpi di machete e lanciafiamme ci facciamo largo e riprendiamo l’autostrada.
Adesso tocca a Palì, area di servizio Canne (una mera coincidenza) della Battaglia. Sentiamo il marmittone di Palì arrivare che quasi abbiamo pensato di montare la tenda per la pennichella pomeridiana.
Farnetica di esodo biblico, sembra il pulcino ballerino e ripartiamo prima che svenga in preda alle allucinazioni.
Tra Bari e Brindisi decidiamo di concederci una pausa in riva al mare ma finiamo in un mondezzaio. I più, sentendosi a loro agio tra i rifiuti, vorrebbero restare per serbare un bel ricordo dell’Italia ma poi spronati da Daniela guadagniamo una bella spiaggetta con annesso frigorifero pieno di birre.
Chiamiamo Talino per salutarci…”Dove siete?”… “Boh…”…guardiamo in giro….il cartello recita a caratteri cubitali: “CALA FETENTE“…”Tali’, siamo a Cala Fetente…”.
Talino, da Sporcoendurista quale è, conosce perfettamente il posto e ci raggiunge in mezz’ora. Dopo aver sbracato il frigorifero si riparte allegri e alleggeriti delle millemila cazzate sparate in quel brevissimo lasso di tempo.
Ululiamo fino al porto di Brindisi dove, dopo aver perso quasi metà ciurma (Moroboschi e Palì impegnati a non leggere i cartelli con scritto “PORTO” in 267 lingue compresa la loro, cioè il disegnino con la nave) e aver espletato correttamente e in maniera esemplare tutte le formalità doganali sotto lo sguardo vigile e attento di Girolamo,
andiamo all’arrembaggio prima del supermercato (Moroboschi si perde per la seconda volta e qui comincio ad interrogarmi sulla validità della scelta del compagno di viaggio) e poi del bastimento che ci vedrà protagonisti assoluti per almeno 40 ore di navigazione a base di mortadella, vino e Palì.
A bordo, con il paggetto Girolamo che ci porge le fedi comprate per l’occasione, Moroboschi ministro di dio e Palì all’organo (ha detto commosso di essere sempre stato affascinato dalle canne), celebriamo il matrimonio tra me e Daniela.
Luigi poi in Iran diventerà cugino di Daniela: tali artifici ci permetteranno di uscire elegantemente da varie situazioni imbarazzanti.
Cesme – Kula (240 km)
11 agosto
Porto di Cesme, Turchia. Agguerriti. Massicci. Determinati.
Manco salutiamo i baraccati che s’attardano sbracati in dogana.
Noi dobbiamo partire, fare strada, stare all’avanguardia, siamo la punta della lancia, il maglio d’acciaio.
L’Iran ci attende: abbiamo ipotizzato di invadere la canagliesca Repubblica Islamica il 14 Agosto, tra circa 2.000 km.
Mamma che emozione!
Dopo neanche 150 km invece siamo vergognosamente fermi.
Il rumorino proveniente dalla ruota posteriore della mia Africa è diventato preoccupante.
Smontiamo la pinza, la rimontiamo… faccio provare la moto al Moro sperando che siano solo mie “fisse”.
Il Moro torna con la faccia seria… smontiamo la ruota, mi sa che è il cuscinetto… manco il tempo di togliere la ruota che in un attimo il sole scompare.
Operiamo sotto l’acqua battente… mentre un turco con il motorino “guzz” (Daniela dixit) decide di fare acqua planing a 3 metri da dove è ferma la moto e rotolare fino all’incrocio. Poi con la decisiva mazzetta di un “meccanico” rimettiamo il cuscinetto e tutti fracichi e sporchi di terra e fango risaliamo in moto.
Neanche siamo partiti e già siamo ridotti ai minimi termini.
Un po’ abbacchiati ci fermiamo a Kula in quanto il nome ci sembra abbastanza appropriato e ben augurante. Dal balcone di un pessimo e naftalinico albergo vediamo sfilare quelli che avevamo lasciato in dogana diretti ad Est.
Apriamo le razioni K, facciamo un giro turistico sul ciglio della strada, regaliamo la prima spilletta dell’Italia ad un bambino simpatico e incravattato e andiamo a nanna. L’indomani dobbiamo recuperare i troppi km persi.
Kula – Yozgat (671 km)
12 agosto
Non mi ricordo niente, solo strada, campi, camion e la sensazione che oggi maciniamo bene.
Passiamo Ankara e i suoi palazzoni, cominciamo a prendere confidenza con i lavori stradali turchi che ci costringono a continui sterrati e ghiaioni.
Come un miraggio nel tardo pomeriggio appare Yozgat e quando ci fanno mettere le moto dentro un deposito di granaglie, il conta km giornaliero segna orgoglioso 671. Visitiamo una moschea, facciamo un giretto in piazza, fotografiamo un alberello di natale in pieno agosto: indubbiamente il viaggio sta entrando nel vivo.
Yozgat – Tercan (565 km)
13 agosto
Muezzin discretamente intonato e ripartiamo. Altre centinaia di km da coprire.
Adesso però abbiamo ripreso fiducia, le moto rispondono bene, le nostre chiappe pure.
Mi dimentico sempre le frecce accese, il Moro s’incazza ma penso ad altro: penso all’operazione di ernia del disco di due mesi fa. Ce la farò? Boh, intanto ci penso e lascio la freccia accesa per l’ennesima volta.
Altri sterratoni facendo lo slalom tra ruspe ruspanti, mucchi di camion, rocce contromano, operai al pascolo e pecore al lavoro: un tale casino che ti si confondono le idee e i ricordi.
Poi l’orizzonte si fa giallo….è in arrivo quella che sembra una tempesta di sabbia. Veniamo investiti dal polverone e poi, immediatamente dopo aver indossato le antipioggia, si scatena l’inferno.
Piove a dirotto, un milione di aghi mi si infilano nel casco conficcandosi nelle guance e sul naso. Non si vede niente e il vento forte ci fa scarrocciare…ammainiamo fiocco e trinchetto e siamo costretti a fermarci al riparo di una tettoia in una stazione di servizio.
Ci sono fermi anche vari automobilisti e due motocicl….cioè uno è indubbiamente un motociclista l’altro sembra il nipote di Otto Von Grunf dei fumetti di Alan Ford.
Dunque: casco da fantino della contrada del bruco, occhialini da piscina, mascherina in neoprene fregata ad Hannibal Lecter, baffo e barbetta alla generale Custer, camicia a scacchi di flanella, jeans e scarpe di cuoio.
Il suo nome è semplicemente Tino, padre austriaco, mamma di Bolzano e parla come il sergente di Sturmtruppen; ha mollato tutto ed è diretto, a grandi linee, in Australia. La sua moto è un custom motorizzato XT 500, con paramani arancioni, serbatoio a goccia e ruote tassellate da fango.
L’altro è un cicciottone inglese su Bmw650, è stravolto, ha la moto completamente rivestita di bitume, si è perso un guanto e gli scappa sempre la cacca. Gli regalo un guanto di lattice per cercare di alleviare le sue sofferenze e completare l’opera. Già penso di accamparci lì, quando comincia a spiovere.
Ripartiamo con la strada che sembra un fiume amazzonico in piena. Dopo pochi km ci bloccano.
C’è una lunga colonna di mezzi fermi e agenti con i mitra in mano.
Ci dicono che la strada più avanti è stata investita da una frana ma che in un’oretta dovrebbero riaprirla. Passano mezzi di soccorso, chiacchieriamo un po’ con Tino mentre l’inglese torna indietro perché gli scappa di nuovo la cacca.
Un poliziotto ci raccomanda di non partire fino a nuovo ordine ma è come se avesse detto: “Pronti? Viaaaaa!!!!” E appena si allontana tutti rimontano su auto, camion e moto e si parte come se fosse la Wacky Race di Penelope Pistop e company.
Moroboschi e Tino partono a razzo, io non becco il folle e non riesco a mettere in moto, poi parto pure io ma da dietro arrivano la macchina della polizia a sirene spiegate e le urla inferocite del poliziotto di prima che con il megafono c’intima di fermarci. Ecco, adesso mi spara, penso. Mi fermo. E’incazzatissimo e mi urla contro. Faccio finta di non comprendere (!) ma faccio la spia e gli indico il turco sul pick-up davanti a me facendogli capire che la colpa è sua. Allora se la prende con l’automobilista mentre dà ordine perentorio a due tir di mettersi di traverso per non far passare nessuno.
Intanto dei due fuggitivi Moroboschi e Tino nessuna traccia. Dopo un bel po’ si riparte, stavolta la macchina della polizia si mette davanti come la safety car da Gran Premio e ci fa percorrere gli otto km fino alla frana a passo d’uomo. Motori imballati, tir che ruggiscono, automobilisti concentratissimi e sfrizionanti, post bruciatori accesi….al minimo accenno sono pronto a partire come Saturno V se no questi mi stritolano…
Ad un ponte più avanti si riaggregano al gregge rombante e scalpitante anche il Moro e Tino che hanno deciso di riconsegnarsi alle autorità per non aggravare la loro situazione.
Nel punto della frana è l’apocalisse: mezzi civili e militari che spalano fango, c’è mezza montagna che è venuta giù sulla strada e poi nel fiume deviandone il corso. Seguo il tassello del Moroboschi attraverso questo imbuto viscido e fangoso sorpassando decine e decine di mezzi bloccati in fila e poi ci rimettiamo a macinare km di strade devastate dal nubifragio cercando di raggiungere un qualsiasi posto per dormire all’asciutto prima che faccia notte.
Arriviamo appena in tempo e ci sembra un miracolo…
Moto parcheggiate in un deposito di pneumatici, accoglienza a Tino e all’inglese nel frattempo sopraggiunti anche loro abbastanza provati, cena e controllo alla luce di una torcia della catena di trasmissione all’inglese che non ci capisce una mazza.
“Dov’è che stiamo?” “Tercan.”
“Ah….yahwnnnn…zzzzzzz…”
e sveniamo lessi sui letti.
Tercan (TR) – Maku (IR) (425 km)
14 agosto
Partiamo presto stamattina.
Faccio una fatica della madonna a tirarmi su. Sono mesi che non prendo la moto. Prima per i dolori e poi per l’operazione e la convalescenza.
Mi manca il ritmo partita ma le pedate e le parole di scherno dei due integralisti della sveglia all’alba e del:
“Minimo 500 km… siamo qui per lavorare”
“Sì, vabbè, ma gli altri 200????”
“Quelli sono di straordinario…”
mi aiutano con dolcezza ad assumere una posizione semi eretta.
“Dai maledetto, che oggi invadiamo l’Iran!”
Sole in faccia, vento fresco e strade libere.
Aoh, ma ndo’ sta l’Iran?
A Est. Sempre dritto. Non puoi sbagliare.
Passiamo in mezzo al granaio turco, placidi contadini a lavoro in campi immensi, cielo azzurro, praterie selvagge e sconfinate e tutto ad un tratto… TATANCA!!!!!! Ah, no, sono solo mucche…vabbè!
Sono decine di km ormai che cerco d’individuare all’orizzonte la sagoma della Montagna.
Solo il nome mette i brividi. E’ da quando studiavo geografia alle elementari che sogno d’incontrarla.
Ad un tratto eccola lì, toglie il fiato. Unica, maestosa, solitaria, immensa.
E’ l’Ararat.
Stiamo utilizzando la scorta d’olio e ne compriamo altri due litri per sicurezza. Poi sempre guardando la Montagna, e quasi chiedendole il permesso, entriamo a Dogubayazit. Ormai la frontiera è a 30 km. Passando dall’altra parte recupereremo un’ora e mezza perciò ci diamo una calmata, respiriamo profondamente, ci prendiamo a schiaffi reciprocamente per dirci che è tutto vero e andiamo a visitare la fortezza di Ishak Pasha.
Mangiamo altre scatolette sotto degli alberi poi ci guardiamo come fossimo dei cospiratori, ci anneriamo le facce con il nerofumo, controlliamo l’equipaggiamento e le scorte di carta igienica accumulate in Turchia (in Iran non si usa), scriviamo le ultime lettere a casa e ci proiettiamo guardinghi ma risoluti verso i reticolati e i bunker dello stato canaglia Iran.
Incontriamo di nuovo l’inglese che, tra una cacca e l’altra, è arrivato pure lui ma ha il carnet de passage che gli parte dall’indomani e quindi è stato respinto alla frontiera; un po’ sfigato questo, meglio tenerci alla larga, potrebbe essere contagioso. Per sicurezza ricontrolliamo i nostri.
Tutto ok. Forza, andiamo, occhio, attenti, chivalà. Brivido. Ecco la frontiera.
Elegantemente e con supremo sprezzo del pericolo sorpassiamo tutti e ci piazziamo spavaldi a petto nudo di fronte al cancello turco. A mezzo metro c’è il cancello iraniano.
Quindi l’eccitante e temibile terra di nessuno immaginata altro non è che una striscia polverosa di nemmeno mezzo metro.
Si apre il cancello turco e la gente in attesa si riversa in quello spazio angusto. Il cancello turco si richiude ma quello iraniano non si apre e la gente rimane lì, in mezzo, pigiata in pochi centimetri con fagotti e valige, sotto il sole.
Alzo timoroso gli occhi e leggo “WELCOME TO ISLAMIC REPUBBLIC OF IRAN” e i faccioni di Khomeini e Khamenei che mi guardano severi ed educatamente interrogativi:
“Che cazzo siete venuti a fa’ in Iran? Eh?????”.
Come sarà dall’altra parte? Respirano la stessa nostra aria? Quanti nasi hanno? Ci squarteranno subito o dopo atroci torture?
Mi giro e una donna iraniana in attesa di varcare il confine mi passa rapida una gomma americana al gusto di banana.
(sarà un messaggio in codice? Mi vuole forse mettere in guardia?)
Arriva una macchina in retromarcia, si ferma al cancello turco, un’ambulanza arriva in retromarcia dalla parte iraniana. Si fermano sul confine, aprono i portelloni e si passano una povera bara in legno mentre una donna tutta vestita di nero piange sommessamente.
Diciamo che le premesse non sono propriamente incoraggianti.
L’attesa si protrae a lungo, tutti ci guardano e guardano i capelli di Daniela che tra solo mezzo metro dovranno essere nascosti da un velo dalla mattina alla sera.
C’ho i capelli lunghi pure io, speriamo bene. Il Moro, invece, va tranquillo.
Fraternizziamo con la gente in attesa; i turchi si stupiscono che abbiamo deciso di andare a visitare l’Iran, gli iraniani… pure.
Donne iraniane avvicinano Daniela e la istruiscono sulla moda iraniana che poi stringi-stringi è da quasi trent’anni a questa parte sempre la stessa: velo in testa e via.
SDREEEEENGGGGG!!!!! Il cancello si apre sferragliando. Finalmente si passa!!!! Siamo in Iran. Speriamo bene. Ci spruzzano qualcosa sulle ruote. Se è disinfettante fanno bene perché facciamo già veramente schifo e puzziamo discretamente.
Giriamo di scrivania in scrivania, Moro mi guarda allibito: ho appena richiamato scandalizzato la sua attenzione su uno che ha passato una mazzetta sottobanco ad un funzionario doganale, ma io poco prima ho fatto lo stesso tentando di “ungere” con dei pessimi sigari italiani distribuiti con nonchalance.
Timbri, controlli, minuziosa e imbarazzantissima perquisizione corporale (c’avete creduto), cambio euro-rial in mezzo a una palude di gente che ti si avvicina circospetta e ti sussurra con la mano davanti alla bocca guardandosi furtivamente intorno: “…change…change…” come se dovessero venderti una partita di oppio.
Cambiamo 250 euro e ci smollano quasi tre milioni e mezzo di rial in banconote di piccolo taglio; dividiamo il malloppo in tre parti ma si fa comunque fatica ad infilare tutti ‘sti “Khomeini” nei marsupi; carnet vidimato timbrato e firmato almeno dieci volte, altri sette o otto controlli e poi ciao, potete andare.
“Welcome to Iran”.
Direzione Maku, paese di confine, prima cittadina iraniana dove cercare da dormire.
Arriviamo precisi nel peggior albergo di Maku.
Cioè, secondo me il peggiore è quello dall’altra parte della strada dove vorrebbero andare Daniela e Moroboschi per, dicono, cominciare a prendere confidenza con le strutture ricettive iraniane; la diatriba si risolve con un salomonico pareggio ma poi affacciandoci nella “hall” notiamo parcheggiata dentro la motoretta di Tino (ma che fa questo, vola?) e decidiamo di parcheggiare pittorescamente anche noi tra i tavoli e le sedie.
Solita feroce trattativa per poi spendere l’esorbitante cifra di 130.000 rial (tre euro a testa parking included – un vero furto) e andiamo a cena in una bettola lì vicino.
Siamo in Iran e ancora non ci hanno sparato… anzi sono stranamente cordiali e gentili… chissà cosa stanno meditando…
spettacolare …grandioso effervescente …….
Fabrizio! sono stato con te sulla tua Africa… ho viaggiato in Iran, verso Persepolis, ho sognato , ho patito, e ho ancora la voglia di ripartire.
bravo, davvero bello e ben scritto!
mike
Grazie.. mi sono ritrovato nelle tue stesse emozioni a distanza di 20 anni dal mio viaggio in moto in Iran.
Dio benedica l’Iran e gli iraniani.
ciao Daniele
sono contento che questo racconto ti abbia riportato indietro di 20 anni. Wow chissà com’era allora l’Iran.
un saluto Luigi
molto bello, grazie.
l’Iran è nel cuore più di ogni altro posto.
buona strada,
Andrea