Quinta Puntata: Dash-e Kavir, un’oasi vicino Tabas, Khur
Risalendo il Dash-e Kavir
Ci svegliamo nella frigo-monostanza e usciamo fuori per pipì mattutina e per darci una lavata all’unico punto acqua di tutta la casa. E’ mattina presto e l’acqua che esce dal tubo è già calda. Dio mio, oggi prevedo una lunga giornata di sofferenza motociclistica.
Ci prepariamo rimettendoci gli stessi indumenti di ieri impregnati di litri e litri di sudore caldo che durante la notte si è cristallizzato sulle giacche della moto (sensazione spiacevolissima). Salutiamo tutti e usciamo fouri per rimontare in sella.
Con in testa tutti gli avvertimenti, le preoccupazioni e le paure della sera precedente percorriamo a ritroso la strada verso Kerman. Ma a noi proprio non ci va giù l’idea di rimettersi in autostrada. Ci fermiamo subito fuori città, apriamo la cartina e proviamo a trovare un’altra strada (come se la lezione di ieri non ci fosse bastata).
“Ok evitiamo quella che risale attraverso il deserto. Ma dai, ci sarà una strada alternativa”
Mentre beviamo il solito chay dei camionisti che si erano avvicinati ci dicono che loro a volte risalgono verso Nord passando per una strada che costeggia il Dash-e Kavir senza passarci in mezzo:
“Prendete per Raval, poi sempre dritti fino all’incrocio Tabas-Birjand. La strada è pure asfaltata”
“Ottimo!”
L’ aneddoto della rana nell’acqua calda
Nel 1882 durante un esperimento alcuni ricercatori notarono che buttando una rana in una pentola di acqua calda, questa saltava fuori. Al contrario, mettendo la rana in una pentola di acqua e riscaldandola lentamente, la rana restava lì fino a morire bollita.
Nei Kalut la temperatura era così alta che ne siamo subito saltati fuori. Diversamente invece è stato risalire il Dash-e Kavir dove la temperatura è aumentata poco a poco fino a bollirci vivi.
Passiamo ore infernali, le più dure dell’intero viaggio. Una sofferenza disumana, una tortura. Guidiamo con un phone gigante acceso in faccia. La moto è un pezzo di ferro infuocato. La sella è rovente e guidiamo seduti sempre sullo stesso piccolo pezzetto di sella dove siamo seduti perchè lì non ci batte il sole. Ma non appena ci spostiamo di un centimetro si sente il suono che fa l’hamburger su una griglia. Ci stiamo arrostendo le chiappe.
Ci fermiamo per fare benzina letteralmente devastati. Facciamo pena a tutti e addirittura un’auto militare ci supera, ci fa fermare e ci regala delle bottiglie di acqua gelata.
Guidiamo e sembra che stiamo scappando. Ci vogliono due termometri e sommare le temperature per sapere quanto caldo fa.
Super Idea dell’Afgano è quella di viaggiare con le bottiglie di acqua ghiacciata tra le cosce. Ricordo che quei pochi kilometri sono stati molto piacevoli, purtoppo l’effetto frozen-balls durava davvero poco.
Prima di Tabas notiamo un’oasi abbandonata e decidiamo di accamparci qui. Siamo troppo provati per arrivare in città. Passiamo nel paesello più vicino per comprare qualcosa da mangiare per cena: Tonno e pane. E qualcosa per colazione: Miele e pane.
Oggi forse è stata la giornata più difficile di tutte. Il caldo ha sciolto tutto intorno a noi… e anche dentro di noi.
Non appena scesi dalla moto un fragoroso quanto sospettoso rumore intestinale ci fa correre in bagno e sul filo del fuorigioco riesco a slacciarmi e calarmi i pantaloni.
Senza guardare mi sono infilato in una delle tante casette di paglia e fango di cui è composta quest’oasi. All’interno sul soffitto centinaia di alveari, centinaia di piccoli ronzii di ali di vespe pronte per un attacco micidiale. Ma la prima che ha provato a lanciarsi contro di me è stata colpita da una nube di gas fetente ed è bastata una mia seconda scarica di squaraus per ammutolirle tutte le altre che si sono rintanate nelle loro tante, mute e in silenzio.
Serata leggera a chiacchierare e a vedere come uscire da ‘sto forno iraniano.
Alle vespe non è andato giù l’attacco con armi chimiche di ieri sera quando siamo andati al bagno e si vendicano la mattina successiva. Ci risvegliamo in un vespaio. Siamo costretti a rivestirci in tenda mettendoci casco, stivali e guanti per non essere punti.
Smontiamo il campo e ripartiamo che non abbiamo fatto nemmeno colazione visto che le vespe si sono pappate tutto il nostro miele.
Altri kilometri di caldo bastardo, infernale. Sbagliamo qualche bivio, qui le indicazioni sono tutte in farsi. Riusciamo ad arrivare a Khur e prendiamo alloggia presso il Bali Hotel.
Alle 18:30 quando fa meno caldo (40° circa) usciamo in perlustrazione. Venendo abbiamo notato un lago salato e vorremmo farci un giro.
50 sfumature di marrone
“Ci sono i turisti, i viaggiatori e poi gli esploratori. Alcuni esploratori, solo i più fortunati riescono ad incontrare qualche sporcoendurista”
Arrivati sulla sponda lasciamo l’asfalto e percorriamo qualche kilometro verso l’interno. La moto sembra un rompighiaccio che spacca le lastre di sale secche di sole con sonori schiok che avevo sentito solo nei documentari sugli iceberg. Ci fermiamo per scattare qualche foto controluce giocando come bambini a fare i vecchi dakariani. L’arancio denso del sole al tramonto rende il momento magico.
Ci restano pochi attimi di luce e noi li sfruttiamo al massimo per fare una delle cazzate epocali che racconteremo ai nostri nipoti.
Andrea vede delle dune di sabbia verso il centro del lago e senza nemmeno fermarsi si avvia. Io ci metto un po’ a rimettere apposto la macchiana fotografica nel marsupio e a rimontare in sella.
Andrea mi precede di qualche centinaio di metri ed ecco all’improvviso che si ferma e si gira verso di me, io penso che voglia farmi una foto e allora mi impettisco tutto, sguardo perso all’orizzonte e aspetto che mi immortali nella foto dell’anno.
E invece vedo Andrea che si muove, come se si volesse divincolare. Io penso che sarà il laccio della fotocamera impigliato negli specchietti… e intanto mi avvicino e riesco a guardarlo meglio e vedo la sua Africa infognata nel fango fino al serbatoio. Nemmeno il tempo di una reazione e io e la mia Africa veniamo risucchiati nel terreno e mi ritrovo fottutamente impantanato in una gigantesca pozza di diarrea di dinosauro.
Dramma.
Una volta rotta la crosta in superficie, il sale e il fango seccandosi diventano pietra e le moto non si muovono di un solo centimetro. Non abbiamo acqua. Proviamo in due a tirare fuori una sola moto con cui andare a chiedere aiuto, scaviamo nel fango marrone caldo che non vi dico cosa sembrava. Mille cristalli di sale ci infilzano le mani e che ci bruciano. Ma nulla. L’unica cosa che si muove in questo deserto è il Sole che va giù oltre l’orizzonte piombandoci nel buio più totale.
Nell’oscurità riusciamo a vedere delle luci che sfrecciano all’orizzonte, ci sarà una strada. Decidiamo di abbandonare le moto e qui il genio dell’Afgano devo dire che mi ha stupito.
Ha viaggiato finora con il GPS (senza mappe! … che genio) sempre acceso per vedere direzione Nord-Sud-Ovest-Est, altezza e altri dati che non so cosa se ne faccia.
L’unico momento in cui ci sarebbe tornato utile quel dannato GPS era ora. Prima di muoverci gli chiedo di prendere il punto ma un triplice bip mi fa capire una sola cosa: pile scariche.
Percorriamo qualche metro in questo fango che ci avvinghia come mani i piedi ed ogni passo pesa come cemento. Dopo un centinaio di metri l’Afgano mi ferma e mi dice: “Ma secondo te dovremmo tornare indietro e chiudere le moto?”
“Andrè ma che cazzo dici? In un lago salato, sotterrate e imprigionate dal fango nel buio della notte nel profondo dell’Iran … ma chi vuoi che le rubi?
Anzi magari me la rubano! Pagherei oro per farmela portare fuori di lì da qualunque ladro!”
Dopo 5km arrivati sull’asfalto ci inginocchiamo tipo il soldato sul poster del film Platoon. Poi stramazziamo agonizzanti al suolo tipo cetacei. Da lontano una strana luce intermittente blu si avvicina, con le ultime forze che mi restano mi metto al centro della carreggiata sbracciandomi con le mani, Andrea fa lo stesso.
Quando l’auto della polizia si ferma il poliziotto che scende ci guarda e poi guarda il cielo come se venissimo dallo spazio.
Aveva appena staccato dal suo turno. Era di ritorno a casa, con magari la famiglia ad aspettarlo per cena e poi a letto per un meritato riposto dopo una giornata di duro lavoro.
Il poliziotto facendo no con la testa guarda il suo collega conscio ormai che li attende una “nottata di merda”.