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Anche nella notte più nera la prima cosa che vedi di un altro sono gli occhi.
Sono dello stesso identico colore del buio, eppure li vedi, vedi quelle due sfere lucide, nere e vive, e li senti.
Li senti addosso, senti che non sei solo.

Quello strano verso ritmico e pesante diverso da tutti gli altri che avevamo sentito in quella notte è ora davanti a noi.
Incrocio i suoi occhi, e mentre mi faccio coraggio per reggere il suo sguardo altri due occhi neri gli sbucano da dietro, e poi altri due.
Il buio amplifica la paura, la paura amplifica la fantasia, la fantasia amplifica l’immaginazione.
E immagino di tutto: un cane a tre teste, un drago alato, il mostro di Lockness, una sirena con la testa di Dario Argento, un cavalluccio marino vestito da rapper americano con la voce di Mario Biondi castrato.
Immagino di tutto, tranne un semplice boscaiolo cambogiano con i suoi due figli su un trattore di rientro dopo una dura giornata di lavoro.
Gli angeli esistono, e hanno gli occhi a mandorla.

Lo vedo e quasi scoppio a piangere, e vorrei abbracciarlo, abbracciare i suoi due figli, cantare a squarciagola, cantare e danzare per la felicità assieme tenendoci per mano sul loro trattore.
Ma devo contenermi e mantenere un certo stile anche nel chiedere aiuto.

La mia faccia è quella di un bambino che ha appena fatto la cazzata del secolo e che giura e rigiura “Giuro! Non lo faccio più!”

La sua faccia è quella di un boscaiolo cambogiano con i suoi due figli su un trattore di rientro dopo una dura giornata di lavoro che si imbatte in piena notte, in piena giungla cambogiana, in due enduristi sognatori avventurieri (insomma, due deficienti).
Leggo sulle sue labbra queste testuali parole pronunciate con una lentezza tale da darle un peso bibblico:
“M a c h e c a z z o s t a t e a f a ?!”

Spegne il motore del trattore, e scende a chiedere cos’è successo, a chiederci se serve un aiuto, in volto un sorriso che è una pugnalata al cuore nel farmi sentire in colpa nel disturbarlo.
Io qui a fare la vita, lui qui a sopravvivere.

Non senza difficoltà e sfoggiando tutto il mio repertorio da teatro partenopeo, riusciamo a mimare una moto rotta, caricarla sul trattore e di andare verso un luogo meno ameno e meno bucolico di quello dove ci siamo persi.

Impieghiamo almeno due ore per raggiungere una sterrata, loro davanti a fare strada, noi dietro a seguirli sulla moto di Fede.
Ci fermiamo davanti ad una palafitta.
Fuori è acceso un fuoco, mentre dentro una quindicina di teste si agitano vedendo rietrare papà con una moto caricata sul trattore e due “enduristi sognatoti avventurieri” che lo seguono.

Scarichiamo la mia moto, e la buttiamo non so nemmeno dove, era buio e non me ne frega nulla, per ora non ne voglio sentire nemmeno parlare di moto.
Ci invitano ad entrare, saliamo le scale e ci togliamo gli stivali da enduro lasciandoli fuori in mezzo ad una trentina di flip-flop di plastica di tutte le dimensioni, di tutti in colori.
Una luce fioca ad illuminare l’ambiente.
Tavoloni di legno a fare da pavimento, giro la testa, le pareti, il soffitto, tutto è di legno, certo qui in mezzo alla foresta non gli manca.
Non ci sono mobili, sedie, quadri, mensole, eppure si respira quel calore familiare proprio di tutte le case. Una povertà di miseria nobile.
In un angolo la cucina, un piccolo tavolo e un fuoco, su cui la moglie del boscaiolo ha appena messo su un pentolone.
Lui si avvicina e ci porge una bacinella con un po’ d’acqua per permetterci di lavarci almeno le mani e la faccia, abbiamo un aspetto davvero pietoso, ore in sella alla moto, tra guadi, fango, terra, sabbia e non so quanti e quali animali mi formicolano in testa.
Abbiamo delle facce stanche, che si vede dalla facce degli altri che facciamo pena.

Ci sediamo a terra, ho alla mia sinistra Fede, di fronte il boscaiolo. Non riusciamo a scambiarci una sola parola, talmente diversi e lontani sono i nostri mondi.
Un suo sorriso e un suo solo gesto, il passarci per primi la ciotola con la zuppa, a colmare tutta quella distanza.
E’ da stamane che non mangio, che non bevo, ho le labbra spaccate, lo stomaco incartapecorito per la fame.
Eccomi con le due mani a prendere la ciotola, l’unica, dove mangeremo in tre.
Diciamo la verità, l’aspetto non era proprio invitante, giro con il cucchiaio per saggiarne consistenza e odore, e una decina di teste di pesce fanno capolino nella brodaglia.
Con due dita ne prendo una e inizio a spulciarne le parti per me commestibili. Il padrone di casa, forse per aiutarmi e suggerirmi come si mangia dalle sue parti, infila pollice, indice e medio nella ciotola, pesca una testa e con una parabola perfetta se la butta in bocca, mentre la mastica mi sorride.
Ricambio ma non lo imito.
Ci servono anche dell’acqua, ma non possiamo berla, non è potabile, almeno per noi. Ma la sete è tremenda e ci graffia la gola. Non ce la facciamo più, e con il cucchiaio ci dissetiamo con la zuppa, piccante e spezziata, ma almeno è stata bollita.
Continuiamo a dire la verità, la zuppa non aveva un bell’aspetto, ma era buona eccome, e ce la pappiamo tutta, e con il riso, non essendoci pane, ci esibiamo in una perfetta scarpetta “cambogiana”.
Vedendoci affamati ci servono un altro pesce, arrosto stavolta, e tutto intero comprese le frattaglie. Lo spolpiamo manco fossimo due piranas lasciando nel piatto solo le frattaglie che il padrone di casa non si lascia sfuggire dicendo testuali parole:
“ma che fessi, questa è la parte più buona!”

Di rimetterci in moto nemmeno a parlarne e con Fede si decide che passeremo la notte lì fuori, sotto la palafitta. Ora dovremmo farlo capire al nostro amico boscaiolo sperando che non sia nessun problema per lui.
E mentre ci prepariamo per un’altra performance teatrale, lui aveva già sistemato due stuoie di foglie di banano e battendoci su con la mano offriva ospitalità per la notte.
E adesso, come te lo dico grazie?

Una piccola parete a dividere la zona notte dalla zona giorno dove abbiamo appena mangiato e dove ora siamo sdraiati in un silenzio quasi imbarazzante.
Dall’altro lato della piccola parete la madre e i suoi 15 bambini che di dormire non ne vogliono sapere.
Guardo il soffitto che sonno e stanchezza iniziano a far sfumare.
Sulle tavole del pavimento di legno i passi sordi e lenti di un bambino in punta di piedi che viene a curiosare di nascosto, affacciandosi solo con la testolina. Gli sorrido e gli stessi passi sordi corrono a riferire ai fratellini in attesa di news.
Il fruscio sussurato delle loro voci che chissà cosa stanno pensando mi accompagna in un sonno profondo come la stanchezza.

la palafitta in cui abbiamo dormito

la palafitta in cui abbiamo dormito

la palafitta in cui abbiamo dormito

Goooooooodmorning Cambogia!

Non so a che ora sorge il sole in Cambogia, ma sembra che tutto il regno animale stia aspettanto solo quello. E non appena il primo raggio di sole scalda il primo metro di terra cambogiana, ogni animale deve iniziare ad abbaiare, grugnire, belare, cinguettare, cantare, ruggire, ululare, squittire a squarciagola fino a perdere la voce… come se la notte ci fosse silenzio!
“‘c’ loro!”

Non siamo certamente i primi a svegliarsi, ci classifichiamo dopo tutto il regno animale, dopo i 15 bambini, dopo il boscaiolo, dopo sua moglie, e anche dopo la nonna.
Guardo il soffitto, non so che ore sono e non so nemmeno dove ci troviamo.
Sorrido all’idea di svegliarmi e di non avere una collocazione spazio-temporale.

la palafitta in cui abbiamo dormito

la palafitta in cui abbiamo dormito

la palafitta in cui abbiamo dormito

la palafitta in cui abbiamo dormito

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3 Comments

  • Luigi Aronne ha detto:

    Che racconto fantastico… per più di un istante ho sentito la fatica di arrancare alla cieca nel folto della giungla cambogiana ed il sollievo nel ricevere un aiuto inatteso… cazzo mi é pure venuta la voglia di una zuppa di teste di pesce!

  • moroboschi ha detto:

    Ciao Luigi
    Grazie tante per i complimenti

    PS
    ahhh … la zuppa di pesce … cosa mi hai ricordato! Mammamia che avventura!

    ciao

  • Jul ha detto:

    Un ammasso sconquassato…ahahahaahaha….cervello di cristiano sbudellato….ahahhahahaa ragazzi io sto morendo!

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